domenica 30 dicembre 2007

Rolo Diez - Foglie nel vento


(Papel picado), 2003
Tropea, 2006

pag.15
Sullo schermo le vittime si succedono con l'insignificanza di chi non pretende nemmeno di fingere una morte reale. È curioso constatare come il cinema è invecchiato. La prima locomotiva che un secolo fa attraversò lo schermo seminò il panico e fece fuggire la gente dalla sala. Oggi possono massacrare cento cristiani e nessuno interrompe le sue masticazioni. Appena ieri, il primo piano di un seno meritevole metteva in subbuglio il testosterone in platea. Ora le ninfe fornicano con serpenti, con sassofoni, con i sette nani di Biancaneve, con il solo risultato di annoiare lo spettatore. Il miracolo è invecchiato. Gli spettatori sono invecchiati. Velocità e menefreghismo sono diventati i paradigmi dell'epoca.

martedì 18 dicembre 2007

Michel Houellebecq - La possibilità di un'isola


(La possibilité d'une île), 2005
Bompiani, 2005

pag.43
Per collocarlo meglio, bisogna ricordare che in quegli anni - gli ultimi di esistenza di un cinema francese economicamente indipendente - i soli successi attestabili della produzione francese, i soli che potessero pretendere, se non di rivaleggiare con la produzione americana, perlomeno di coprirne le spese, appartenevano al genere della commedia - raffinata o volgare che fosse, funzionava. D'altra parte, il riconoscimento artistico, che consentiva al tempo stesso l'accesso agli ultimi finanziamenti pubblici e una copertura corretta nei media di riferimento, andava prioritariamente, nel cinema come negli altri campi, a produzioni culturali che facevano apologia del male o, perlomeno, rimettevano gravemente in discussione i valori morali definiti "tradizionali" per convenzione di linguaggio, in una sorta di anarchia istituzionale che si perpetuava attraverso minipantomime il cui carattere ripetitivo non ne smorzava affatto il fascino agli occhi della critica, tanto più che essa facilitava loro la redazione di recensioni stereotipate, classiche, ma che potevano però presentarsi come innovatrici.

sabato 15 dicembre 2007

Den brysomme mannen (The bothersome man)


Avevo conosciuto Jens Lien per Natural glasses, un brevissimo folgorante cortometraggio del 2001 in cui già dimostrava di volersi cimentare con il rapporto tra reale e immaginario, o tra mondo dei sogni e l'inesorabile realtà.
Den brysomme mannen è il secondo lungometraggio di Lien, ed è reduce da vari premi ricevuti in Norvegia oltre che dalla partecipazione alla Semaine de la critique del Festival di Cannes 2006. A me ha ricordato molto Fuori orario di Scorsese, per la sua continua invenzione di situazioni via via surreali, grottesche, inquietanti e anche decisamente paurose.
Essendo sospeso sul bilico dell'immaginazione, non è facile definire (se c'è) un senso compiuto a questo film, anche se si fa strada l'ipotesi della critica alla società caritatevole - tipicamente scandinava - che, cercando di prendersi cura dell'individuo in tutti i momenti della sua vita, ne castrerebbe ogni tentativo di slancio anarchico o anche semplicemente fantasioso. Questo può essere dedotto pure dal titolo, che tradotto (almeno quello inglese..) significa "l'uomo fastidioso".
Tant'è, forse non vale neanche la pena di cercare a tutti i costi un senso razionale nel film, perché la nostra fantasia e attenzione vengono stimolate in modo eccellente da tutte le sue inversioni di marcia, così come dalle magnifiche locations norvegesi ed islandesi, dall'uso diegetico del sonoro e da una regia precisa e perfettamente funzionale al racconto.
Insomma, l'ennesima occasione sprecata dai nostri pusillanimi distributori.

p.s. in Romania, paese che noi italiani ultimamente consideriamo abitato da individui subumani, il film è uscito!

lunedì 3 dicembre 2007

PARANOYD


Arriva a Bologna l'8 e il 9 dicembre PARANOYD, un film indipendente prodotto e diretto in un solo giorno da Giuseppe Amodio e M.Debora Farina. Il film sembra essere una vera chicca per gli amanti del cinema di genere, tanto che si è conquistato vari elogi in giro per il mondo e un ottimo riscontro di pubblico al cinema Detour di Roma, dove è stato in programmazione per una settimana.
Non mi dilungo oltre sul film, dato che c'è il sito che contiene tutte le informazioni d'uopo.
Le proiezioni sono organizzate dal Cineclub Fratelli Marx - di cui faccio parte - e si tengono alla Sala Centofiori, in Via Gorki 16 a Corticella. Attenzione perché l'ingresso della sala è più facilmente raggiungibile dalla rotonda in fondo a Via Byron, dove c'è anche il capolinea dell'autobus n.27.
Orario delle proiezioni: 18.30 e 21.30.
L'ingresso è riservato ai soci del Cineclub e costa soli 3 euro. La tessera associativa, volta a sostenere le attività del Cineclub, costa 5 euro, e a chi la sottoscriverà in quest'occasione verrà totalmente scontato il biglietto di ingresso.

sabato 1 dicembre 2007

Stealing a nation


Diego Garcia è la principale isola dell'arcipelago delle Chagos, nel centro dell'Oceano Indiano, a sud delle Maldive.
John Pilger è un giornalista australiano che fin dai tempi della guerra del Vietnam sforna scomodi reportages sulle malefatte dei governi più potenti della Terra verso le popolazioni più povere e indifese.
John Pilger ha realizzato nel 2004 questo documentario in cui ci racconta, con grande chiarezza e determinazione, la sorte toccata ai circa 2000 abitanti di Diego Garcia e delle Chagos. A seguito di un accordo segreto firmato nel 1965 tra Gran Bretagna e Stati Uniti, a partire dal 1966 e fino al 1973 gli isolani sono stati deportati a Mauritius, con un trattamento neanche riservato agli animali, e lì sistemati in slum fatiscenti privi di acqua ed energia elettrica. Tutto ciò al fine di permettere che gli USA costruissero a Diego Garcia quella che oggi è la loro più imponente base militare all'estero: quattromila militari, testate atomiche, bombardieri a lungo raggio che gli scorsi anni hanno colpito Afghanistan e Iraq nelle guerre di democrazia e civiltà promosse da George W. Bush.
Le Isole Chagos erano fino allora un vero paradiso terrestre, popolato da uomini e donne miti e autosufficienti, alcuni dei quali nell'esilio forzato delle Mauritius sono morti di tristezza. Altri combattono da allora una strenua battaglia legale che ha visto, nel 2000, il riconoscimento delle loro ragioni da parte della High Court di Londra. Ciò nonostante, il governo britannico ha ribadito il divieto a tempo indeterminato a fare ritorno sull'isola, per presunti e ridicoli motivi di pericolosità (innalzamento delle acque dell'oceano causato dal global warming) e di costi eccessivi per la rilocalizzazione degli esiliati.
Andate a vedere il sito della base militare americana e vedrete come loro si sono sistemati per bene, e capirete che nessuno più li smuoverà da lì, e che quelle di Londra sono solo l'ennesima menzogna e l'ennesima calata di braghe di fronte all'arrogante strapotere statunitense (anche noi in Italia ne sappiamo qualcosa).
Se questa storia vi ha interessato, allora il mio consiglio è di guardarvi questo ottimo documentario, che mantiene viva l'attenzione su questa incredibile sopraffazione.

Gian Carlo Fusco - Duri a Marsiglia


Einaudi, 2005

pag.105
Soltanto dopo cena, quando andavano a passeggiare sulla Canebière o sul Quai des Belges, le donne si mettevano qualcosa di più pesante, uno scialle o un golf, sui vestiti d'agosto. I cinema all'aperto erano sempre gremiti. Specialmente l'Arène Monte Cristo, dove si proiettava, fin dalla fine di luglio, Quatorze julliet di René Clair, con Annabella (una delle mie attrici preferite) e Georges Rigaud. Lo andai a vedere due volte. E due volte andai anche al Cinema Italia, a vedere La tavola dei poveri di Alessandro Blasetti, dove giganteggiava la straordinaria personalità di Raffele Viviani. Lungo la pensilina del cinematografo, centinaia di lampadine, spegnendosi e accendendosi, facevano scorrere la scritta pubblicitaria: «Ce film n'est pas plu à Mussolini».

domenica 25 novembre 2007

Gerry


Gerry di Gus Van Sant è uno dei buchi più clamorosi nella distribuzione cinematografica italiana degli ultimi 10 anni. In Italia Gerry, film del 2002, non è ancora uscito né in sala né in DVD; io ho una mia interpretazione del perché, che ora vi spiego. Gus Van Sant si presentava nel 2002 come un regista dallo stile fondamentalmente classico e comunque tranquillizzante, ed era reduce da alcuni film che avevano ottenuto un buon riscontro al botteghino, in particolare Will hunting (830.000 spettatori in Italia) e Scoprendo Forrester (719.000 spettatori). Era insomma diventato nella considerazione dei distributori un regista affidabile, anche se non propriamente un regista da blockbuster.
L'uscita di Gerry ha però spiazzato un po' tutti: è un film che Van Sant ha girato ispirandosi dichiaratamente al regista ungherese Bela Tarr, utilizzando perciò in modo esclusivo lunghi piani sequenza, dialoghi ridotti all'osso e un tempo molto dilatato. In poche parole, Gerry è un film agli antipodi dell'hollywoodianità. Le major (o almeno le filiali italiane delle major) se la sono data a gambe alla vista di un prodotto siffatto, e alla CDI, una piccola-media casa di distribuzione specializzata in trash-movies da multisala, non è parso vero di poter mettere le mani su di un film di un regista importante e con un attore in forte ascesa come Matt Damon. Ma poi evidentemente hanno visto il film, il film gli ha fatto cagare e così lo hanno tenuto congelato nel listino per circa tre anni, dopo di che lo hanno fatto sparire. Purtroppo non è servita neppure la Palma d'Oro vinta da Van Sant l'anno successivo con Elephant per garantire a Gerry una sia pur minima uscita in sala.
Questa, ripeto, è la mia interpretazione, ma ho la sensazione che si avvicini molto al vero.

Oltre al gossip mercantile, posso però dire che Gerry è un film che varrebbe invece la pena di vedere, per una serie di motivi. Intanto per un motivo puramente filologico, perché inaugura la trilogia che Van Sant ha realizzato ispirandosi a Bela Tarr (gli altri due film sono il già citato Elephant e Last days); poi perché è la testimonianza vivente della "ribellione" allo star-system di un regista affermato, che riesce nell'impresa di realizzare un film estremamente personale e indipendente; infine perché in sé è un film più che valido, che ha anzi del miracoloso in quanto pur con una trama estremamente esile (che può essere riassunta così: due amici vanno in un parco naturale per fare una scarpinata, si perdono, e cercano disperatamente di sopravvivere e trovare una via d'uscita) riesce ad appassionare e a tenere viva l'attenzione fino alla fine.
Certo, Elephant è il film migliore della trilogia perchè in esso si porta a piena realizzazione il concetto di regia che Van Sant ha adottato in questo periodo, ma Gerry è di gran lunga migliore dell'inutile Last days, film che ha goduto di tanta pubblicità per il solo fatto di essere una presunta biografia di Kurt Cobain.
L'ennesima dimostrazione di come la vendita di un film venga fatta sempre più spesso per motivi che con la qualità intrinseca dell'opera hanno poco a che fare.

mercoledì 21 novembre 2007

Gino Pugnetti - Vendetta, tremenda vendetta


Meridiano Zero, 2004

pag.32
Senta, il personale è pronto?
Il personale. Sono in due. Uno alla proiezione e uno al controllo in sala. Non li ha visti? Sono quelli che stanno imbiancando. Uno, l'operatore, è appena tornato dalla guerra, era in marina e gli hanno affondato il sommergibile, così che ogni tanto gli viene da fare degli urli, e l'altro è il cavalier Bisigato, non lo ha mai sentito? eh dài, il boxeur, il campione regionale dei massimi di prima della guerra...
Ah, quello là grosso.
Sa, questo è un cinema popolare, ogni tanto succede qualche baruffa, allora ci vuole uno coi muscoli, che con una sberla metta a posto tutti. Una volta ha mandato fuori con un spintone anche un militare tedesco ubriacato che disturbava il film con la Jean Harlow.

pag.128
Specie di sera il Casalini era sempre pieno. Di lunedì qualche volta lo affittavo a una società corale, oppure al complesso dei Ruzantini, o a un incontro di boxe, dove prima di incominciare montava sul ring per l'applauso anche il pugile a riposo cavalier Bisigato, che era sempre il custode fedele del locale. Per la prossima stagione avevo in mente di fare dei bei film, che già avevo prenotato La corona di ferro, Ventiquattro ore di guerra in URSS, Le avventure del barone di Münchhausen e il capolavoro dei Bambini ci guardano. Purtroppo il Roma città aperta me lo aveva già fregato per la prima visione il cinema Garibaldi. In più avevo affittato almeno venti film west, compreso il capolavoro dei capolavori Ombre rosse, che per l'occasione aumentavo anche il prezzo dei biglietti.
Anche il cinema-teatro Concordi, che eravamo in tre soci, andava bene. Ma là si presentava roba leggerina, specie commedie di amore, tanto la gente aspettava che terminasse il film e tutti si precipitavano nelle prime file per vedere il varietà, che di solito le compagnie le scritturava Nonantola conoscendo gli impresari di Milano e intendendosi di quel genere.

domenica 18 novembre 2007

Kongekabale


È da una dozzina di anni, dai tempi cioè del Dogma 95, che il cinema danese ci propone film molto belli artisticamente e tecnicamente e soprattutto molto morali. Fare un film morale non significa fare film da psicologia minima e banale, come ci hanno malamente abituato i cosiddetti autori italiani. Significa rappresentare temi importanti del comportamento umano e sociale, prendendo posizione rispetto al loro degrado moderno, indotto da quella che io continuo a chiamare la società catto-consumista.
In Kongekabale, come in diversi altri di questi film danesi, è la famiglia il perno della discussione morale. Famiglia che questa volta è impegolata fino al collo nella politica, il che andrebbe bene se non ci fosse un rampollo ribelle, che di professione fa il giornalista e riesce poco alla volta a scoprire tutte le schifezze fatte dal suo nobile paparino e dai suoi amici in doppio petto.
Un tema non troppo originale, certo, ma proprio per questo virtualmente eterno. La messa in scena con toni thriller, la qualità danese e la tensione morale di cui ho detto sopra però rendono questo film assolutamente da vedere.

ps: Kongekabale tradotto letteralmente vorrebbe dire "Il gioco del re", ma il suo vero significato è "un gioco difficile" o "un gioco azzardato", grazie alla mia amica Johanne per l'indicazione.

giovedì 15 novembre 2007

Gianrico Carofiglio - Ragionevoli dubbi


Sellerio, 2006

pag.200-202
Non era serata da rimanere in casa e decisi di andare al cinema. All'Esedra c'era The long goodbye di Altman, in lingua originale con sottotitoli. Ci misi venti minuti per arrivare a quel vecchio cinema, camminando veloce per strade così deserte e spazzate dal maestrale che facevano quasi paura.
Il signore dei biglietti non era contento di vedermi, e non fece niente per nasconderlo. Esitò persino qualche istante a prendere la banconota che gli avevo poggiato davanti e pensai che mi pregasse di andarmene, perché ero l'unico spettatore e dunque l'unico ostacolo alla chiusura anticipata del cinema. Poi prese i soldi, staccò il biglietto e me lo diede sgarbatamente assieme al resto.
Entrai nella sala completamente vuota. Non so se la totale assenza di stimoli sensoriali umani acuiva il mio olfatto o se il cinema aveva bisogno di una buona pulizia, ma sentii distintamente l'odore delle fodere delle poltrone e della polvere che le impregnava.
Mi sedetti, mi guardai attorno, pensai che era una situazione perfetta per un episodio di Ai confini della realtà. E in effetti per una manciata di secondi dovetti contrastare l'impulso di andare a controllare che l'uomo dei biglietti non si fosse trasformato in un crostaceo gigante antropofago e che le uscite di sicurezza non fossero diventate varchi spazio-temporali verso l'Altra Dimensione.
Poi entrò una donna. Si sedette vicino all'entrata, una decina di file dietro di me. Se volevo guardarla dovevo girarmi apposta, cosa che, se esageravo, poteva essere sconveniente. Dunque riuscii a farmene solo un'idea sommaria, prima che si spegnessero le luci e cominciasse il film.
(...)
Durante il primo tempo non seguii il film con molta attenzione, a parte il fatto che l'avevo già visto due volte. Pensavo che mi sarebbe piaciuto attaccare discorso con quella ragazza, signora, quello che era. Mi sarebbe piaciuto parlarle nell'intervallo e poi, finito il film, mi sarebbe piaciuto invitarla a bere qualcosa. Sempre che non se ne fosse andata durante il primo tempo, vinta dall'inquietudine di quella sala deserta e un po' paurosa. E dal timore che l'altro spettatore - che si era voltato un po' troppe volte a guardarla - fosse un molestatore maniaco.
Nell'intervallo lei c'era ancora. Si era tolta il poncho o lo scialle e stava lì, del tutto a suo agio, ma naturalmente io non trovai il coraggio di attaccare discorso.
Nel secondo tempo pensai che un buono spunto poteva essere la presenza del giovane Schwarzenegger nel film. Ha visto, c'era Schwarzenegger ragazzino. Roba da non credersi che adesso faccia il governatore della California. Vabbè, fa schifo, ma per una cinefila - e cazzo, una che va a vedersi da sola The long goodbye a quell'ora di notte è una cinefila - lo spunto «prime apparizioni di attori allora sconosciuti poi diventati molto famosi» non è male.
Quando le luci si accesero, mentre l'operatore troncava bruscamente i titoli di coda, mi alzai deciso. Non ero mai stato capace di abbordare una ragazza in vita mia, ma adesso ero cresciuto - per così dire - e potevo provarci. In fondo cosa poteva succederci? Nulla, che diamine.
Lei però stavolta non c'era più. Il cinema era di nuovo vuoto.
Mi affrettai verso l'uscita, pensando che si fosse alzata immediatamente prima dell'accensione delle luci. Ma per strada non c'era nessuno.

mercoledì 14 novembre 2007

Český sen


Český sen (Sogno céco) è il nome di un nuovo ipermercato che sta per sorgere alla periferia di Praga, un sogno di felicità e di consumismo al posto di un campo incolto, una promessa di ricchezza che va a riempire un terreno vuoto e inutile. La pubblicità è martellante e accattivante, i prezzi sono competitivi, i manager sono giovani e intraprendenti. C'è da fidarsi, è l'Occidente che si afferma, la modernità che finalmente arriva in questo paese che per così tanto tempo ne è stato privato. Centinaia di persone accorrono per l'inaugurazione, in una bella domenica di primavera.
Peccato che tutto questo è realmente un sogno, o forse una burla nella miglior tradizione umoristica praghese, o forse un eccezionale esperimento di psicologia sociale posto in essere da due laureandi della FAMU, la celebre scuola di cinema di Praga. Le persone che con una velocità e una fame di gloria degne del miglior Pietro Mennea divorano di corsa lo spazio che le separa dall'ipermercato scopriranno che non si tratta altro che di un telone attaccato ad un'impalcatura.
Noi spettatori del film questo lo sappiamo fin dall'inizio, perché accompagniamo i due impavidi autori nella messinscena del sogno, ma fino alla fine rimaniamo increduli di fronte alla facilità con cui le persone possono essere buggerate dalle promesse del capitalismo. E arriviamo a pensare pure a tutte le volte in cui anche noi siamo già stati in ugual modo buggerati.

martedì 13 novembre 2007

Orhan Pamuk - La casa del silenzio


Sessiz ev, 1996
Einaudi, 2007

pag.13
Ho imboccato la via dove c'è il cinema, ora sento la musica, quella che suonano prima della proiezione. C'è sempre una bella illuminazione, qui. Guardo i manifesti:
Appuntamento in paradiso. È un vecchio film. Su una foto, si vede Ediz Hun che abbraccia Hülya Koçyiğit. E poi ecco Ediz in prigione. E poi si vede Hülya che canta, ma nessuno potrebbe indovinare, senza aver visto il film, la successione degli eventi. Forse è per questo che si affiggono i manifesti all'esterno: per suscitare la curiosità dei passanti. Vado al botteghino: un biglietto, per favore. La cassiera me lo tende. Grazie. Le chiedo se il film è bello. Non lo ha visto. A volte mi prende così: una voglia improvvisa di parlare. Vado a sedermi. Aspetto. Di lì a poco il film comincia.
(...)
Si accendono le luci, usciamo, tutti parlano del film. Piacerebbe anche a me conversare con qualcuno. sono le undici e dieci. La signora mi starà aspettando, ma non ho voglia di tornare a casa.

lunedì 12 novembre 2007

Tony Takitani

Questo è uno dei gioielli della bellissima edizione 2004 del Festival di Locarno. Il film era nella selezione ufficiale, non ricevette il Pardo d'Oro ma ci andò molto vicino, vincendo il Premio Speciale della Giuria.
Credo che sia uno dei film più raffinati che abbia mai visto. Per darvene un'idea sommaria, vi descrivo tre elementi del cast: il regista Ichikawa Jun è considerato come l'ultimo maestro del cinema giapponese a (non) essere stato scoperto in Europa; la sceneggiatura è tratta da un racconto di Murakami Haruki e le musiche sono di Sakamoto Ryuichi, questi due almeno li conosciamo.
È un film malinconico, dal respiro lento come quello dei nostri pensieri, con l'attenzione rivolta a quei piccoli gesti apparentemente semplici che però riempiono di significato la nostra esistenza. E possiede una singolare somiglianza con uno dei capolavori di Alfred Hitchcock, quello in cui l'ex poliziotto Scottie Ferguson cerca di ricreare la donna che ha amato e che crede morta... Vertigo, anche questo lo conosciamo. E così come per Vertigo, chi vedrà Tony Takitani non se lo dimenticherà.

lunedì 4 giugno 2007

Albert Camus - La peste

(idem), 1947
Bompiani, 1948/2001


pag.61
Naturalmente i cinematografi approfittavano della vacanza generale e facevano grossi affari; ma i giri che i film compivano nel distretto erano interrotti. Dopo due settimane, le sale furono costrette a cambiar programma, e in poco tempo i cinematografi finirono col proiettare sempre lo stesso film. Ma gli incassi non diminuivano.

pag.213
Tarrou giudicava la cosa possibile, ma pensava che fosse meglio, intanto, prospettarsi la prossima apertura delle porte e il ritorno a una vita normale.
"Ammettiamolo" disse Cottard, "ammettiamolo; ma cosa intende lei per ritorno a una vita normale?"
"Dei nuovi film al cinematografo", disse Tarrou sorridendo.

Edward Bunker - Little Boy Blue


(idem), 1981
Einaudi, 2003

pagg.38-39
Non avevano soldi per offrirsi un giro in giostra, né per tutte quelle cose buone i cui profumi aleggiavano nell'aria, ma si mescolarono alla folla e ficcarono il naso ovunque poterono, dimentichi, almeno temporaneamente, della fame che li attanagliava. Cinema a poco prezzo ce n'erano in quantità. Uno aveva in cartellone due grandi films con Boris Karloff, La mummia e Frankenstein, e i due ragazzi non seppero resistere al richiamo del brivido. Alex comprò un biglietto per venti cent - il che ne lasciò loro in tasca ancora venticinque - entrò e poi andò ad aprire la porta di sicurezza per permettere a Sammy di entrare. Restarono lì il tempo di due spettacoli, finché si spensero le luci e il cinema chiuse i battenti.

pag.339
Era quasi mezzanotte quando Wedo e Alex lasciarono la sede dell'«Examiner».
- E adesso? - disse Wedo. - Sono stanco.
- Anch'io. E non so dove andare.
- Potrei… andare a casa, - disse Wedo, prima di dare ad Alex una pacca sulla schiena in segno di amicizia. - Se si può chiamare casa quel buco schifoso. - Soffocò le parole con falsa disinvoltura. - Ma non mi va. Spesso è così.
- Allora dov'è che dormi?
Wedo rispose con un'alzata di spalle. - Qua e là. Qualche volta da Hank. Sua madre mi vuol bene. Qualche volta da Teresa… entro di nascosto per evitare suo padre e salgo al primo piano… altre volte in un cinema aperto di notte su Main Street. Lo vuoi provare?
- Certo, amico.
Così decisero, e nelle settimane successive trascorsero parecchie notti in alcuni cinema che davano tre film di seguito, sedendosi sempre nei pressi dell'uscita, nel caso in cui gli sbirri che perlustravano la sala dalla porta decidessero di muoversi lungo le file dei sedili. I cinema notturni chiudevano verso le sei e mezza del mattino; le loro creature erano scaraventate all'aperto, alla luce del giorno, e poi si perdevano tra lo sciame della città al risveglio.

Chico Buarque - Budapest

(Budapeste), 2003
Feltrinelli, 2005, pag.126

Strinse il pugno, preparò il colpo, penso che m'avrebbe colpito al fegato, quando si sentirono delle voci accanto a me. Alcune persone presero a uscire dal muro, persone e ancora persone uscirono da quel buco scuro che era la porta del retro di un cinema. Allora mi mescolai al pubblico, avanzai con il gruppo verso il viale, passai davanti all'entrata del cinema, bar, farmacia, chiosco dei giornali, mi precipitai in mezzo alle macchine ed entrai nell'hotel.

James Agee - Una morte in famiglia


(A death in the family), 1958
Edizioni e/o, 2003, pagg.13-16

A cena quella sera, come già tante altre volte, suo padre disse: «E che diresti, se si andasse al cinematografo?».
«Oh, Jay!» disse sua madre. «Quell'odioso ometto!».
«Che male ti ha fatto?» domandò suo padre, non perché non sapesse già quel che avrebbe detto lei, ma per costringerla a dirlo.
«È così disgustoso!» disse lei come sempre. «Così volgare! Con quel disgustoso bastoncino che tira su le gonne, e quel disgustoso modo di camminare a passettini!».
Suo padre rise come sempre, e Rufus sentì che lo scherzo era diventato piuttosto stupido; ma come sempre riderne gli metteva allegria: sentiva che riderne lo univa a suo padre.
Si avviarono verso la città nella luce di madreperla, al Majestic, e trovarono posto alla luce dello schermo nell'odore eccitante di tabacco vecchio, di sudore rancido, di profumo e di mutande sporche, mentre il pianoforte suonava una musica vivace e cavalli al galoppo sollevavano grandi velari di polvere. E c'era William Hart con le due pistole che vomitavano fuoco e la lunga faccia equina e la bocca grande e risoluta, e il vasto paesaggio si svolgeva dietro a lui, ampio come il mondo. Poi fece una faccia timida a una fanciulla e il cavallo arricciò il labbro superiore e tutti quanti risero, e poi lo schermo fu occupato da una città e dal marciapiede di una strada di città con un lungo filare di palme ed ecco Charlot: tutti risero appena lo videro camminare a gambe arcuate, piedi in fuori e ginocchia scostate come se avesse un'irritazione; il padre di Rufus rise e rise anche Rufus. (…) allora il suonatore di pianoforte cambiò musica e venne la pubblicità a colori e senza movimento. Rimasero ancora per vedere l'inizio del film di William Hart e sapere perché aveva ucciso l'uomo dal panciotto fantasia, ed era come l'avevano immaginato vedendo il volto atterrito e soddisfatto di lei dopo il delitto; lui aveva insultato una fanciulla e per di più ne aveva ingannato il padre, e il padre di Rufus disse: « Be', mi pare che siamo arrivati a questo punto», ma stettero a guardare ancora una volta come uccideva l'uomo; poi uscirono.

Joe Sentieri

Di Joe Sentieri conservo un ricordo personale. Avevo sedici o diciassette anni, all'inizio degli anni '80, e trascorrevo le vacanze in un paesino dell'alto Appennino reggiano, dove i miei genitori avevano da poco comprato una casa. Joe Sentieri era nato a Genova, ma le sue origini erano a Cerreto Alpi, il primo borgo che si incontra scendendo in Emilia sulla strada che unisce La Spezia a Reggio, un paesino minuscolo ma che ha il suo posto d'onore nella musica e nella cultura italiana, avendo dato i natali anche a Giovanni Lindo Ferretti e a Ezio Comparoni, meglio noto come Silvio D'Arzo. Come la gran parte dei montanari, allora come oggi, la famiglia di Sentieri era emigrata a Genova alla ricerca di un lavoro, ma aveva mantenuto saldissime radici con la sua terra d'origine.

All'inizio degli anni '80, dicevo, con i miei genitori e con i nostri amici di Collagna passavamo in macchina da Cerreto Alpi, arrivando a un certo punto davanti a una casetta, di fronte alla quale sedeva un omino dall'aspetto modesto. "Quello è Joe Sentieri" ci dissero i nostri amici, spiegandoci che da un po' di tempo era tornato a vivere lì, perchè era praticamente rimasto senza soldi e nessuno lo faceva più cantare, essendo irrimediabilmente passato di moda. Naturalmente lassù tutti lo conoscevano, e i nostri amici ne parlavano con quella compassione un po' fredda che si riserva a chi non ha saputo conservare le fortune che la vita gli aveva offerto. Joe Sentieri era a quel tempo un eccentrico che si guadagnava qualche soldino vendendo i quadri che aveva iniziato a dipingere dopo aver smesso di cantare. Negli anni successivi, ogni volta che tornavo su in montagna la curiosità mi spingeva a ripassare davanti alla casetta di Joe Sentieri, che da allora ho visto sempre chiusa e sempre più fatiscente, come tante case abbandonate dell'Appennino.

Oggi, leggendo gli articoli che ricordano Joe Sentieri nel giorno della sua morte, ho avuto le risposte alle due domande che mi venivano naturali quando vedevo quella piccola dimora. La Stampa riferisce infatti che "Per spiegare le ragioni delle sue difficolta economiche Sentieri raccontava: «Ho sprecato il mio patrimonio: spesi 40 milioni per un terreno a Rapallo così da costruirci palazzine ma proprio lì decisero di far passare l’autostrada. Fu un buco enorme. Poi provai con un negozio di dischi andato malissimo»", e che "Il cantante viveva da tempo a Pescara dove risiede la sua compagna Dora, che gli è stata a fianco negli ultimi 25 anni." Una sorte purtroppo simile a quella di Dino Sarti, a lungo dimenticato nella sua stessa città e che ha passato nell'oblio gli ultimi anni della sua vita.

E allora voglio che qualcuno almeno sappia e si ricordi che Joe Sentieri non è stato solo quello del "saltino" o il precursore degli "urlatori", ma anche un buon interprete di Jacques Brel (e di Frank Sinatra). Il mondo della canzonetta gli stava stretto, tanto che raccontava che il famoso saltino alla fine della canzone era per lui un modo per festeggiare la fine di una piccola pena, quella di cantare brani molto, troppo, facili e commerciali. Come Dino Sarti, nelle sei canzoni che ha interpretato in dialetto genovese Joe Sentieri ha saputo cogliere l'anima popolare delle canzoni di Brel ("É bigotte" e la a suo modo straordinaria Vesoul che diventa Rapallo in "Ti voevi anda’ a Rapallo") ma in più rispetto al bolognese ne ha praticato anche il versante romantico, con le traduzioni di "Ne me quitte pas" ("No, no te n’anâ") e di "La chanson des vieux amants" ("Maria").

Non posso negare di essere rimasto molto sorpreso il momento in cui ho scoperto le traduzioni di Brel fatte da Joe Sentieri: il tempo che passa, le registrazioni ora pressochè introvabili, le semplificazioni dei mass-media mantengono vive immagini monodimensionali degli artisti meno conosciuti. Ma è importante sapere che in Italia c'è stata una generazione di cantanti che valeva molto di più di quello che si tende a credere e a far credere; questa generazione purtroppo ci sta poco alla volta abbandonando, probabilmente non è sostituita da elementi di uguale spessore e allora una volta di più è necessario tenerne vivo il ricordo.

Martedì 27 marzo 2007

Articoli di quotidiani:
la Repubblica
La Stampa

Dino Sarti


Il cantante e showman bolognese Dino Sarti è morto all'ospedale di Bentivoglio, in provincia di Bologna, dove era ricoverato per una grave malattia. Lo ha reso noto Corrado Castellari, autore delle musiche di tutti i successi dell'artista. Nato il 20 novembre del 1936, Sarti aveva legato la propria fama soprattutto a brani come Piazza Maggiore 14 agosto, Viale Ceccarini Riccione, Spometi, Tango imbezell e all'inno rossoblu Bologna campione. "Le canzoni di Dino Sarti - aveva detto di lui Enzo Biagi - hanno il sapore del pane all'olio e rispecchiano il carattere della mia gente". Nella sua carriera, anche qualche esperienza cinematografica, come Fontamara, Vai alla grande di Salvatore Samperi nel 1983 e Dichiarazioni d'amore di Pupi Avati nel 1994. Sarti aveva lasciato il capoluogo emiliano parecchi anni fa per trasferirsi a Carimate, in Lombardia, ma di recente era tornato a vivere nel bolognese.

Sarti inizia a esibirsi nelle balere della sua città, nella metà degli anni Cinquanta, mentre lavora come tornitore meccanico in una fabbrica. Il debutto ufficiale è nel 1956, alla Festa dell'Unità di Bologna, con un classico della canzone francese, Donna. Scritturato da un locale di San Lazzaro di Savena, mette insieme un repertorio composto da canzoni americane e francesi. Poi, partecipa a un concorso radiofonico per voci nuove, lascia la fabbrica e si unisce al gruppo dei Casamatta, e debutta al Palace Hotel di St.Moritz.

Risale al 1957 l'incontro con Pino Calvi, che l'anno dopo gli fa incidere un 45 giri: Bernardine/Giorgio del Lago Maggiore. Sono i tempi in cui viene bocciato ad un provino per la Rai, perché il suo stile da cantante di night club non viene apprezzato. Debutta, invece, in tv a Radio Monte Ceneri, sempre in Svizzera. Poi lo scopre la televisione italiana, e si esibisce in un programma condotto da Mike Bongiorno. Intanto, continua con le sue serate nei night e nei locali da ballo, e comincia a frequentare anche un gruppo di jazzisti. Per piasair lasa ster la mi dona (Per piacere lascia stare la mia donna) è la sua prima canzone in bolognese.

È la scoperta dei dischi di Jacques Brel a dare un'impronta particolare alla sua produzione. Sarti incide in bolognese canzoni dello stesso Brel, ma anche di Bécaud e Aznavour. È del 1970 il suo primo album, Bologna invece!, una decina di brani suoi (Tango imbezel, cioè Tango imbecille), traduzioni dal francese in bolognese (Jef di Brel, che diventa Vèin amigh, e Natalie di Becaud) e vecchie canzoni popolari bolognesi. Il disco vende 100 mila copie: un evento, per un album di canzoni in dialetto.

Nel 1971 esce Bologna tra un treno e ql'elter, nel 1973 debutta in cabaret esibendosi per tre mesi al Derby di Milano e nello stesso anno pubblica il secondo album, che contiene Spomèti, una delle sue canzoni più famose. Nel 1974 escono l'album Piazza Maggiore 14 agosto e il singolo Viale Ceccarini Riccione, nel 1975 è nei negozi Bologna e invece tre, che ottiene il premio della critica.

Chiamato dall'allora sindaco di Bologna Renato Zangheri per cantare, nel giorno di Ferragosto, per i bolognesi rimasti in città, Sarti si esibisce davanti a 40 mila persone, e per qualche anno l'appuntamento in piazza Maggiore diventa una tradizione. Nel 1976 esce Dino Sarti, con alcune poesie di Tonino Guerra musicate e tradotte in bolognese, oltre a I vic (versione bolognese di Les vieux di Brel). L'anno successivo incide Bologna campione, inno della squadra di calcio rossoblu, nel 1979 I love you cucombra (Ti amo cocomero).

Apprezzato anche come scrittore, Sarti dà alle stampe libri come 'Vengo dal night', 'Night and day', 'O si è bolognesi o si sa l'inglese', 'Quanto zucchero?'. Partecipa anche al film-tv di Carlo Lizzani 'Fontamara' (1980) e ai film 'Vai alla grande' di Samperi (1983) e 'Dichiarazioni d'amore' di Pupi Avati ('94).

Negli anni Ottanta e Novanta la sua attività discografica rallenta: escono solo l'album 'Spometi' (1982), la raccolta 'Sentimental Bertoldo' (1994) e un recente 'Disco platinum' con i successi di sempre e alcuni inediti. Con lui scompare uno dei più popolari cantanti in dialetto bolognese, assieme ad Andrea Mingardi.

(da www.laRepubblica.it, 11 febbraio 2007)

Il mio nome è Rosso - di Ohran Pamuk

Che romanzo ricco! Che lettura intensa, profonda e appassionante! Sono tante le cose da dire su questo romanzo che sicuramente non riuscirò a scriverle in questo piccolo spazio, ci vorrebbe l'abilità dei suoi protagonisti, i miniaturisti del Sultano di Istanbul.

Allora, ci provo: intanto la suddivisione in capitoli corrisponde a tante diverse voci che danno vita alla narrazione: sono i vari protagonisti che portano avanti la storia secondo il loro punto di vista, creando un effetto al tempo stesso moderno, in stile cinematografico, e antico, riecheggiante il racconto orale, con tutte le sue necessarie spiegazioni e ripetizioni e con le sue confidenze.

Poi, i testi e i significati sono veramente innumerevoli. La trama contiene: una storia d'amore e di erotismo; un giallo che porta alla risoluzione di due delitti; una minuziosa ricostruzione storica e sociale dell'ambiente dei miniaturisti (che in modo naturale testimonia la storia dell'impero ottomano); il contrasto tra la modernità nascente (siamo nel 1591), rappresentata dal culto dell'immagine proveniente dagli infedeli europei e la tradizione del disegno secondo gli insegnamenti della legge coranica; l'insorgere di movimenti fondamentalisti che minano la stabilità religiosa e sociale; digressioni filosofiche di notevole profondità sulla visione e sulla cecità; folgoranti invenzioni descrittive e narrative...

Un romanzo assolutamente da leggere (anche se nelle ultime pagine vi faranno male gli occhi...), per tutti e ancor più per chi come me in questi tempi nutre una grande curiosità verso quel nostro vicino scomodo che è la Turchia. Da parte mia va un sentito ringraziamento all'Accademia del Premio Nobel che con il suo azzeccatissimo giudizio mi ha fatto scoprire questo grande scrittore.

domenica 3 giugno 2007

Il vento fa il suo giro


di Giorgio Diritti

Italia, 2006

Rating: 864/1000


Questo film di Giorgio Diritti è una vera perla nascosta nel cinema italiano di quest'anno. Si tratta di un film sincero, appassionato, realizzato con un'idea di regia ben chiara e con una commistione tra fiction e documentarismo ben equilibrata; tutte doti molto difficili da trovare in un film, non solo italiano.

La storia è ambientata a Chersogno, un borgo dell'alta Val Maira, nel cuneese, in una di quelle comunità montane ormai spopolate in cui si parla ancora la lingua occitana, antico trait-d'union tra l'italiano e il francese. In questa piccola comunità si stabilisce con la sua famiglia un pastore francese, e questo evento determinerà un forte e imprevedibile impatto sulla vita tranquilla e monotona del borgo. Non è quindi niente di più che uno degli archetipi della narrazione (l'ingresso di un estraneo entro un gruppo precostituito), ma l'originalità dell'ambientazione e la coerenza con cui gli eventi narrati aderiscono alle caratteristiche di queste comunità così sparute e isolate sono rimarchevoli.

Vedendo il film non ho potuto fare a meno di paragonare i comportamenti degli abitanti di Chersogno (di cui giustamente il regista ci mostra senza risparmio i volti antichi e per questo bellissimi) con quelli dei paesi dell'alto appennino reggiano che ho conosciuto bene (vedi anche la mia ricordanza a Joe Sentieri). Le somiglianze sono evidenti: un'economia ormai inconsistente, le attività agricole e l'allevamento quasi del tutto abbandonati, l'isolamento che crea una diffusa grettezza e diffidenza verso gli estranei e soprattutto un fotissimo controllo sociale, che può risultare in manifestazioni di grande solidarietà così come in una ostilità dichiarata e cattiva.

Un grande plauso quindi al regista, agli abitanti della Val Maira che hanno accettato di recitare da protagonisti in un film non certamente accomodante e alla produzione delle bolognesi Arancia Film e Imago Orbis. Vergogna invece alle case di distribuzione italiane, in particolare quelle d'essai che, pur dichiarandosi indipendenti, non hanno evidentemente più il coraggio di investire in film nei quali non ci sia almeno uno dei soliti nomi noti. Questo nonostante IL VENTO E IL SUO GIRO abbia fatto incetta di premi e riconoscimenti in molti festival italiani ed europei.

sito web: www.ilventofailsuogiro.com

L'incidente stradale


È sempre più frequente la possibilità di assistere a incidenti stradali, sia nelle strade delle nostre città che sugli schermi cinematografici guardando un film di recente uscita.

Per quanto riguarda la vita reale, le cause di questa escalation sono facilmente riconducibili a una serie di fattori concomitanti, quali l'aumento dell'uso dei mezzi di trasporto privati, l'aumentata velocità di questi mezzi e l'aumentata percezione di sicurezza alla guida di tali mezzi, nonché, almeno per quanto riguarda l'Italia, la sempre diffusa e mai abbastanza criticata e combattuta indisciplina da parte di tutti verso le regole della circolazione stradale.

La cosa più incredibile di tutto ciò è che si sta creando una sorta di assuefazione verso l'incidente stradale da parte di chi non vi è direttamente coinvolto: è diventato un fatto normale, è facile averci a che fare quotidianamente ed è sostanzialmente diventato una rottura di scatole perchè ci rallenta o ci blocca rispetto ai nostri importantissimi impegni. A volte però può assumere forme spettacolari, e allora diventa divertente, ci possiamo anche fermare un attimo a guardarlo, così come guardiamo con interesse le partenze dei Gran Premi di formula 1, nella speranza che i piloti combinino un bell'incidente di massa. Del resto, a parte la partenza le corse di automobilismo sono una palla enorme e non a caso i piloti più amati sono sempre stati quelli che avevano in dote la propensione a creare incidenti: basti pensare al mitico Gilles Villeneuve, che per i suoi frequenti voli con la rossa era chiamato l'Aviatore. Peccato che una volta alcuni spettatori ci lasciarono le penne in uno dei suoi voli; il suo acerrimo nemico Keke Rosberg era invece simpaticamente chiamato dalla stampa sportiva italiana il Killer, perché aveva fatto uscire Villeneuve di pista, forse anche più di una volta, ma del resto lo sappiamo che la sportività non è di casa nei circuiti automobilistici.

L'incidente stradale è diventato talmente naturale nella vita di tutti i giorni che ormai è un elemento imprescindibile nell'armamentario di ogni sceneggiatore cinematografico o televisivo. Vediamo così che quando la trama esige che un personaggio esca di scena ma non si vuole che venga ucciso per omicidio (nella fiction non siamo più sanguigni come ai tempi del western o del noir), allora bam! lo si fa finire sotto un'automobile (o sotto un camion o un pullman se non vogliamo lasciar dubbi sulla sorte del poveretto o della poveretta) e il gioco è fatto.

L'esempio più agghiacciante per la sua bruttezza e povertà di stile è sicuramente quello di un pessimo film italiano di qualche anno fa, IL VESTITO DELLA SPOSA, in cui il cattivo da operetta Andrea Di Stefano era talmente incazzato da non accorgersi dell'arrivo di un pullman che provvederà a maciullarlo in fini pezzetti, evitando così alla povera piccola Maya Sansa di sporcarsi le mani di sangue, lei che aveva il ruolo della vittima immacolata.

In ambito italiano IL VESTITO DELLA SPOSA può considerarsi un capostipite di questa estrema forma di pigrizia mentale (da non dimenticare anche l'incidente di RICORDATI DI ME), ma anche all'estero non scherzano, CRASH di Paul Haggis ci ha pure vinto un Oscar giocando sulle coincidenze e sugli incidenti uno sporchissimo gioco di ricatto emozionale.

Sono rimasto colpito dal trovare un incidente stradale usato in modo superficiale anche nel per il resto ottimo LE VITE DEGLI ALTRI. Si tratta di una vera caduta di stile all'interno di una sceneggiatura fino allora molto fluida e accattivante (anche se in realtà già prima c'era stata una caduta: come fa lo scrittore Georg a non accorgersi che qualcuno ha suonato apposta il campanello per fargli scoprire la sua CMS sull'auto del Ministro??). Fino a quel punto abbiamo infatti visto come tratto caratteristico - e reale - una Berlino del 1985 dalle strade vuote e pressoché prive di traffico (che sogno!), e proprio in quel momento invece passa un furgone, che sfiga! Poi: dobbiamo sempre credere che una persona, per quanto disperata e stravolta, non conservi quel minimo istinto di sopravvivenza che le impedisca di andare in mezzo alla strada senza guardare?

Mi ricordo, quand'ero piccolo, la notizia che Johnny Dorelli era stato investito da un'auto a Londra perché il povero non si era ancora abituato al diverso senso di marcia dei perfidi albionici e quindi aveva attraversato la strada guardando dalla parte sbagliata. Questo lo capisco, e solidarizzo con Johnny, ma quello che vedo ora nei film non lo sopporto più.

Propongo perciò una abolizione completa degli incidenti stradali da ogni sceneggiatura ancora da scrivere, e desidero ardentemente l'eliminazione totale di ogni automobile e ancor più di ogni scooter dai centri storici delle nostre città. O meglio: sogno un unico, enorme, definitivo incidente che ci tolga dalle palle tutti i mezzi che ci inquinano e ci tolgono il piacere di goderci le nostre città, una catasta gigantesca di ferraglia e plastica contorta e abbrustolita che emani puzzo per settimane allo scopo di non farci dimenticare il mondo di merda che, in quel sogno, ci saremmo lasciati alle spalle.