domenica 28 settembre 2008

L'EMMERDEUR (Édouard Molinaro, 1973)

Tra le tante cose belle che ricordo degli anni '70 ci sono certamente anche le commedie francesi, perfino quegli sciagurati de I Cinque Matti (Les Charlots) mi tornano in mente con affetto. Tra le vette più alte del genere e del periodo c'è sicuramente L'emmerdeur, che voglio qui ricordare per la sua evidente connessione con Jacques Brel.
L'emmerdeur è stato l'ultimo film interpretato da Jacques Brel nella sua purtroppo breve carriera cinematografica (se escludiamo la sua apparizione per cantare Ne me quitte pas nel film-musical Jacques Brel is alive and well and living in Paris del 1976, in cui peraltro la sua aura è straordinariamente presente); carriera costituita da una dozzina di film - di cui 2 da lui diretti - alcuni dei quali trascurabili, altri invece assolutamente degni di nota anche grazie all'interpretazione di Brel. Che, come si poteva immaginare conoscendo il suo stile di cantante, si trovava perfettamente a suo agio nelle commedie e nei film di azione/avventura, generi nei quali poteva scatenare tutta la sua mobilità espressiva e corporea; non è un caso che infatti abbia interpretato ruoli decisamente anarchici in film come La bande à Bonnot e Mon oncle Benjamin. Inoltre non va dimenticato che Brel poteva disporre di uno strumento recitativo come la sua voce, con tutta la sua gamma di intonazioni e sfumature, decisamente hors-catégorie per gran parte dei comuni attori di cinema. Ne L'emmerdeur, Brel è il rompiballe che dà il titolo al film, e rende la vita gramissima al sicario Lino Ventura/M.Milan, che sarà impedito a compiere la sua missione a causa dell'incontenibile invasività di Brel/Pignon, suo vicino di stanza d'albergo in preda a crisi suicida-depressiva causata dall'infedeltà della moglie.
Anche se oggi in Italia questo film è piuttosto dimenticato (non esiste ancora la versione in dvd, pur essendo una coproduzione Francia/Italia), bisogna riconoscere che è diventato una sorta di standard; sia perché è il primo episodio della cosiddetta "saga" di Pignon, il personaggio in apparenza ingenuo creato da Francis Veber (sceneggiatore di L'emmerdeur) che poi ritroveremo in Il vizietto, La cena dei cretini e L'apparenza inganna, sia perché è un mirabile esempio di commedia "a valanga", in cui gli avvenimenti precipitano in modo sempre più frenetico via via che la storia avanza, coinvolgendo sempre nuovi personaggi e ciò nonostante mantenendo un ritmo e una struttura perfettamente controllati. E che il film fosse da prendere ad esempio di commedia ben riuscita, lo dimostra anche il fatto che niente meno che Billy Wilder ne ha fatto il remake hollywoodiano (Buddy Buddy, quello che resterà il suo ultimo film), con Jack Lemmon e Walter Matthau nei ruoli rispettivamente di Jacques Brel e Lino Ventura.
A giovare al film c'è sicuramente la grande intesa tra gli attori e tra di essi e il regista. Del resto, Molinaro aveva diretto Ventura già nel 1959 nel bel noir Un témoin dans la ville e Brel nel già citato Mon oncle Benjamin; Ventura e Brel si erano conosciuti un anno prima, sul set di L'aventure c'est l'aventure, e da allora erano diventati grandi amici anche nella vita. Due amici di cui oggi si sente tantissimo la mancanza.

venerdì 19 settembre 2008

STANDARD OPERATING PROCEDURE (Errol Morris, 2008)


Chi conosce a sufficienza il mondo del film documentario, sa che nel suddetto ambito Errol Morris è uno dei più importanti autori degli ultimi venti anni, e pertanto la visione di un suo nuovo film - le cui uscite sono peraltro sempre piuttosto distanziate nel tempo - porta con sé un notevole carico di attese.
Forse è anche per questo che Standard operating procedure, l'ultimo film di Morris visto ieri sera al Lumière, mi ha piuttosto deluso, ma gli elementi oggettivi di insoddisfazione sono in realtà diversi e significativi.
Il film ci offre la descrizione a distanza di qualche anno di uno degli eventi più cupi e barbari derivati dalla guerra in Iraq, ovvero le torture e le umiliazioni patite dai prigionieri iracheni nel famigerato carcere di Abu Ghraib. Il punto forte del film è indubbiamente la presenza in volto e in voce di gran parte dei soldati americani che si sono resi responsabili delle torture; intervistati da Morris, questi soldati ci raccontano cosa hanno fatto e provano a spiegare come vivono oggi questa loro 'esperienza'. A corredo di queste narrazioni ci sono anche numerose foto scattate nel carcere aventi come soggetto i prigionieri seviziati e i soldati sghignazzanti mentre si divertono nel loro ruolo di aguzzini.
Beh, l'argomento è sicuramente conosciuto e degno di essere raccontato anche se alquanto deprimente, essendo la riprova ennesima della miseria morale che può essere raggiunta dall'uomo in determinate situazioni. Il problema del film però è innanzitutto che il racconto è tutto lì, sembra incaponirsi nel ripetere svariati "aneddoti" delle torture sottoposte a diverse persone, senza allargare più di tanto il campo di indagine al contesto e al background di questi soldati. Che si vede subito non sono altro che dei mentecatti debosciati, che se non fossero capitati in Iraq si sarebbero probabilmente segnalati per atti di sodomia su animali domestici in un qualche paesino del Midwest. La cosa forse più orripilante, a mente fredda, è vedere come ancora oggi il ricordo di quelle sevizie non susciti particolari pentimenti o rimorsi nei soldati intervistati, che sentono con maggiore urgenza il bisogno di rinfacciare di essersi lasciati coinvolgere o ingannare dai loro commilitoni.
Dal punto di vista più stilistico, trovo assai sgradevole che il film sia riempito di ricostruzioni in studio, oltretutto spesso in ralenti, che non aggiungono assolutamente nulla, né in termini di pathos né in termini puramente estetici; così come non ho apprezzato le musiche di Danny Elfman (il musicista dei film di Tim Burton), eccessive e inadeguate; le stesse interviste hanno subito un pesante editing, cosa che trasmette a volte una sensazione di artificiosità. Per concludere il cahier des doleances, è decisamente insopportabile l'ingombrante presenza del marchio Sony, che da produttrice del film ha fatto un uso veramente eccessivo del product placement. In certi momenti si ha addirittura la sensazione che la origine vera del film sia proprio lì... anche perché si tratta di una produzione decisamente ricca per un film documentario.
Spero che per Errol Morris si sia trattato solo di uno scivolone passeggero, per adesso il film migliore sull'Iraq rimane ancora No end in sight.