sabato 19 gennaio 2008

Gerald Kersh - La notte e la città


(The night and the city), 1938
Fanucci, 2003

pagg.11-12
Ding! fece l'orologio al primo scoccare delle otto. Su e giù per la via i negozi cominciavano a chiudere. La West Central prese ad ardere e contorcersi in un reticolo fiammeggiante di tubi al neon. Esplodendo come inesauribili fuochi d'artificio, il milione di lampadine colorate delle insegne luminose ardeva sopra la facciata del West End con una intermittenza cadenzata. I treni della metropolitana provenienti dalla periferia, schizzando fuori dal tunnel come dentifricio rosso da un tubetto, vomitavano folle di pubblico dirette ai teatri. Autobus carichi si lanciavano strepitanti verso i cinodromi. Gli ingressi dei cinema divennero neri di gente. I teatri di vaudeville, come aspirapolvere giganti, risucchiarono all'improvviso le file in attesa. Dietro le finestre più alte si accesero le luci e si abbassarono le tendine. Gas, fili elettrici, cera, olio: tutto quel che può far luce bruciava.

giovedì 17 gennaio 2008

impossibile spegnerlo?

Ieri sera, al cinema a vedere Cous cous. Sala piena, con gente lasciata fuori, una bella sensazione purtroppo rara oggidì, preannunciata dall'incontro col pubblico della proiezione precedente che defluiva sorridente sotto i portici. Sala piena vuol dire anche avere vicino persone che non vedono necessariamente la sala come luogo sacro e il periodo della proiezione come spettacolo cui assistere in silenzio; persone cioè che vedono un film in sala come lo vedrebbero in casa col dvd.
Più volte quindi durante la proiezione l'occhio viene distratto dallo schermo dal comparire di luci quadrate bianche o gialle provenienti dalla platea; un istante dopo anche il pensiero viene distratto dal desiderio di commettere violenza almeno verbale nei confronti dei proprietari di quegli schermini digitali. Così si può perdere una battuta del film, anzi anche più di una se lo schermino giallo si accende per quattro volte alla persona di fianco a te, che si prende pure l'agio di scrivere messaggi di risposta a quelli ricevuti, nonostante l'evidente fastidio manifestato dal sottoscritto.
Sono sempre stato convinto che il telefono cellulare è una di quelle tecnologie che ci faranno diventare più stupidi, ieri sera è stata l'ennesima riprova che il cellulare ci farà diventare anche più deboli, dipendenti e insicuri, perché se non siamo capaci di spegnerlo neanche per quelle due ore in cui vediamo un film, in cui sappiamo che lasciandolo acceso rompiamo i coglioni a tutti gli altri, vuol proprio dire che il bisogno di sentirsi pensati fa totalmente dimenticare i confini della maleducazione, anche a persone che probabilmente questi confini li conoscono molto bene. Sono moralista, lo so, e forse anche snob e retrogrado, mais je m'en fous!

venerdì 11 gennaio 2008

The real dirt on farmer John


Farmer John Peterson è un tipo bizzarro, che è stato destinato dalla vita a fare il contadino, sul terreno che rimane della azienda agricola di famiglia, nel profondo Illinois rurale. E questo nonostante tanti ripensamenti, dovuti a diverse scelte esistenziali, alle difficoltà per condurre l'azienda senza farsi succhiare tutto dalle banche, all'aperta ostilità degli altri farmers a lui vicini. Nei momenti di crisi, farmer John si prende qualche mese di buen retiro in Messico e poi ritorna con rinnovate energie ed entusiasmo per ricominciare con idee nuove la conduzione della sua fattoria. Poi finalmente arriva l'idea vincente, che mette assieme il risultato economico con la gioia del lavorare la terra e del trasmettere questa gioia agli altri, in particolare ai giovani: il social farming.
È ufficialmente un documentario, ma io lo definirei (se tale definizione può esistere) un combo-movie, che per certi versi ricorda altri film, in primo luogo Capturing the Friedmans. Le riprese girate appositamente per la produzione del film sono (o almeno sembrano) molto poche, essendo la gran parte del materiale filmato risalente a periodi che coprono tutta la vita di farmer John, dall'infanzia degli anni '50 al periodo hippy di John ventenne fino alle immagini spudorate dell'anziana madre incosciente poco prima della sua morte. Mi fa molto pensare che esistono persone che, indipendentemente dall'originalità della propria esistenza, ritengano necessario filmarsi in ogni periodo della propria vita, per potere infine arrivare a produrre una autobiografia filmata. Per fortuna la vita di farmer John è stata molto interessante e, a differenza di quella dei Friedman, molto positiva e generosa.
Questo rende il film assai gradevole, di sicura empatia per gli ambientalisti e per tutti coloro interessati al biologico et similia, e tutto sommato anche istruttivo. Infine, ci riconcilia con quel lato buono degli States fatto di solidarietà e senso di comunità che ha fatto molto per definire l'identità di quella nazione ma che sembrava ormai del tutto scomparso.

mercoledì 9 gennaio 2008

Tonino Benacquista - Malavita

(id.), 2004
Ponte alle Grazie, 2006

pag.92-94
Cholong-sur-Avre non aveva mai avuto una vera sala cinematografica. A ogni generazione, un volontario si occupava di un buon vecchio cineforum ospitato nel salone di gala del municipio. Nonostante i moniti di un pugno di eletti («È una lotta persa in partenza!»), una cinquantina di fedelissimi arrivavano sempre, quale che fosse il programma, nelle due sedute mensili: di che rendere redditizia l'operazione e dare torto ai cacadubbi. Alain Lemercier, pensionato della Pubblica istruzione ed eterno cinefilo, decideva la programmazione del film, faceva stampare le locandine e dirigeva il dibattito che seguiva la proiezione. Il suo amore per il cinema gli veniva da quei pazzoidi che avevano percorso le campagne in lungo e in largo per proiettare i film di Marcel Carné e di Sacha Guitry nei fienili e nelle sale dei municipi, da quei fanatici che andavano a cercare il loro pubblico nei campi, nelle cucine delle fattorie, e che poi lo accoglievano senza curarsi dell'incasso, perché non c'era nessuno che pagasse davvero; non era quello il fine. Gli illuminati della lanterna magica si accontentavano delle risate alla comparsa di Michel Simon in Boudu, e delle lacrime alla scena finale di Furore. In ricordo di tutti quei momenti, Alain Lemercier aveva ripreso la fiaccola a Cholong e programmava un cinema d'autore, classici dimenticati, pretesti per il dibattito che tratteneva in sala la maggior parte degli spettatori. Il più delle volte riusciva a scovare un invitato in grado di fornire un punto di vista particolare; ci si rammentava di una serata che aveva riempito una buona metà della sala in occasione della proiezione di Momenti di gloria, la storia di due giovani mezzofondisti che non smettevano di affrontarsi. Alain aveva invitato una celebrità locale, il signor Mounier, la cui carriera di podista aveva ripreso slancio sul tardi in occasione dei giochi olimpici della terza età. In un'altra serata memorabile, era riuscito a far venire da Parigi uno specialista in bambini genialoidi per un appassionante dibattito attorno ad un film che raccontava la storia di un bambino ritardato che diventa di colpo superintelligente. E, se si trovava a corto di relatori, Alain caldeggiava le domande e cercava di ottenere risposta da coloro che avevano un parere: era un animatore.
L'arrivo a Cholong di uno scrittore newyorchese era un pretesto ideale per rivisitare un classico americano. Senza pensarci su due volte, Alain prese il telefono per invitare Fred, cui rammentò le ore feconde della sua piccola attività cinematografica.
«Sarebbe un grande onore per noi se accettasse di essere il nostro prossimo invitato.»
Un dibattito in un cineforum? Fred? Lui per il quale un film non era concepibile senza una birra in mano, senza un tasto «Pausa» per andare a rovistare in frigo? Lui che si annoiava se non c'erano esplosioni e sparatorie? Lui che si addormentava durante le scene romantiche? Lui che non riusciva a leggere i sottotitoli e a vedere contemporaneamente le immagini? Un dibattito in un cineforum?

pag.96-98
Nella penombra del gigantesco salone delle feste, gli spettatori aspettavano il discorsetto introduttivo di Alain Lemercier. Quei cinquanta irriducibili, presenti sempre e comunque, costituivano stavolta un vero e proprio circolo. Per niente al mondo sarebbero mancati a quel rituale, a quel raccoglimento condiviso che non si trovava più altrove, a quell'emozione che soltanto il grande schermo suscitava. Apprezzavano altrettanto il ritorno al reale e i battibecchi che seguivano il film. Il semplice fatto di lasciare il loro comodo salotto e la televisione per andare a vedere un film in sala era, ai loro occhi, un atto di resistenza.
(...)
Lemercier, scomparso in cabina di proiezione, tardava a far partire il film; tra il pubblico serpeggiava l'impazienza.
«Da noi, avrebbero già ammazzato l'operatore» bisbigliò Fred.
Tom, nonostante una lunga abitudine all'attesa, gli dette ragione. Lemercier ricomparve, le braccia aperte in segno di scusa, e salì sul palco per fare un annuncio.
«Amici! La Cineteca ha commesso un errore. I rulli che mi hanno consegnato non corrispondono al nostro titolo. Non è la prima volta che capita...»
In ragione di due volte l'anno, stava diventando addirittura un classico. Nel novembre precedente, Il cacciatore di Michael Cimino era finito nelle pizze di Viaggio allucinante di Richard Fleischer, e qualche mese prima, anziché vedere il documentario americano Punishment Park, il club si era dovuto accontentare di La Pantera Rosa colpisce ancora. Ci voleva altro per destabilizzare Alain, il quale riusciva, con un rischioso gioco di destrezza, a giustificare il cambiamento di programma, a improvvisare una presentazione selvaggia, fino a trovare delle connessioni tra i due film. Quel tipo di riassestamento dopo un cataclisma era diventato la specialità dell'animatore.

pag.101
Dopo i titoli di coda, Lemercier tornò sul palco e prese il microfono per dare qualche informazione sul film e sul regista. Prima di passare la parola a coloro che volevano intervenire, si volse verso Fred e lo invitò a raggiungerlo. Ci furono applausi di incoraggiamento e, come al solito, Alain fece la prima domanda.
«Quando si vive a New York, si percepisce la presenza della mafia così come il cinema è solito presentarla?»

pag.107
Cinquanta sagome inerti. Cinquanta persone che pendevano dalle labbra dell'uomo sul palco. Un vento di stupore passava tra le file e nessuno osava muoversi o fare commenti. Dimenticati il dibattito, la programmazione. Una voce si esprimeva, bisognava ascoltarla.
Uno spettatore si alzò con discrezione e uscì per telefonare alla moglie che assisteva, a cento metri da lì, alla riunione mensile dei militanti della lista ecologica per le prossime elezioni comunali. In sostanza, le disse che stava succedendo «qualcosa» al cineforum, qualcosa da non perdere per niente al mondo. Lei guardò l'orologio e propose all'assemblea di andare a fare una puntata al salone delle feste.

pag.109-110
In terza fila, i coniugi Ferrier, habitué del cineforum, si guardavano increduli.
«Non ti pare che esageri un po'?»
«È uno scrittore, cara. Più il fatto è stravagante, e più farcelo credere lo diverte.»
Il pubblico, dopo un'ora che Fred parlava, era triplicato. La notizia si era propagata e i curiosi arrivavano dai ristoranti e dai bar dei dintorni. Più volte Fred ebbe voglia di prendere nota di un aneddoto che poteva trovare posto nelle sue Memorie, ma poi preferì continuare a tirare per le lunghe un esercizio che soggiogava il suo uditorio. Quanto a Tom, si vedeva già intento a contattare la base di Quantico per riferire ai suoi superiori, ma come annunciare loro che Fred, non contento di trasformare il suo passato di mafioso in letteratura, si era appena lanciato in un one-man-show che avrebbe potuto riempire il Caesar's Palace?