domenica 30 marzo 2008

Jonathan Lethem - La fortezza della solitudine


(The fortress of solitude), 2003
Tropea, 2004

pagg.121-122
Il Dullfield era una grandiosa rovina di cinema art déco, un esperimento vivente di ciò che accade se non ripulisci la facciata di un palazzo per cinquant'anni, ti limiti a vendere biglietti e caramelle ormai dure da appiccicare a terra e Coca-Cola sgasata a corrodere i cardini dei sedili imbottiti sfondati quando si rovesciava. Un sedile su quattro era abbastanza solido da potercisi sedere. Altri sembravano essere stati presi a coltellate da gang inferocite. Le pareti erano pannelli di feltro rosso stracciato tra cherubini e rosette dorati, ormai anneriti e col naso mozzato come lugubri doccioni. Quel luogo era innaturalmente oscuro. Le insegne rosse dell'uscita fluttuavano nell'oscurità, il fumo di sigaretta che intersecava il fascio di luce del proiettore per poi annidarsi nell'enorme relitto di candeliere, sotto la volta scrostata del soffitto, il film fuori quadro che si proiettava sui bordi del pesante sipario marcio ai lati dello schermo. Lo schermo medesimo presentava fori di proiettile ed era visibilmente marchiato dai tag di Strike e di Bel II.
Barrett Rude Junior pagò il biglietto ed entrò, trovò un posto sotto la balconata. La lotteria ambulante era già cominciato, forse era già a metà. L'aria era fredda e stantia. La sala era piena per due terzi, le teste raggruppate fino agli angoli più remoti del gigantesco locale, tutti che fumavano e ridevano e commentavano il film. Gridolini e gemiti negli angoli più bui. Una donna avrebbe anche potuto partorire due gemelli sulla balconata, che nessuno se ne sarebbe accorto. Barrett Rude si appoggiò all'indietro, collaudò le molle, si mise comodo. Aveva avuto la furbizia di portarsi un bottiglione di Colt nel sacchetto di carta marrone, senza preoccuparsi di nasconderlo all'indifferente strappabiglietti. Svitò il tappo, che esalò un rapido shuffff di anidride carbonica liberata, cui rispose il mormorio di invidia degli spettatori abbastanza vicini da poterlo udire: Maledizione, potevo pensarci anch'io?

venerdì 28 marzo 2008

The King of Kong - A fistful of quarters


Ricordate Pac-Man? Donkey Kong? Bisogna tornare alla preistoria dei videogames, ovvero agli inizi degli anni '80, ma per chi, come anche il sottoscritto, ha passato qualche ora della propria adolescenza cercando di superare i primi livelli di quei giochi, il ricordo suscita certamente un po' di tenerezza.

Non è esattamente così per i nostri coetanei statunitensi che, come spesso accade, prendono ogni cosa maledettamente sul serio. Anche quando si tratta senza alcun dubbio di sorta di un gioco. E così, unendo questa seriosità alla possibilità di ricavare fama e denaro (altra cosa a cui gli yankee non sono certo indifferenti), già dal 1982 si organizzano tornei di videogames i cui vincitori diventano piccole celebrità. Che poi questi vincitori vengano automaticamente proclamati campioni del mondo è solo l'ennesima manifestazione dell'egocentrismo che regna laggiù.
E' il caso ad esempio di Billy Mitchell, dal 1982 recordman incontestato di Donkey Kong oltre che titolare di una faccia per niente simpatica. Finché, attorno al 2005, da un garage di Redmond, Washington (guarda caso la città di Bill Gates) sbuca Steve Wiebe, che invece ha la faccia pulita del buon ragazzone americano. Con grande impegno per poter conciliare la sua passione per i videogames con il tempo richiesto dalla famiglia e dal lavoro, Steve riesce a stracciare il record di Mitchell. E qui iniziano i problemi, perché Mitchell si rivela essere quello che fin dal primo minuto sospettavamo, ovvero un gran pezzo di merda. Con mezzi poco leciti e anche estremamente vigliacchi, Mitchell difenderà con i denti il suo record stabilito nel 1982.

Detto così sembra un film di fiction, invece è la storia documentata di come si possano brutalizzare anche emozioni semplici e naturali come quelle che nascono dal gioco. Ma anche di come sia possibile creare dal nulla dei personaggi genuini (Wiebe) e fasulli (Mitchell), che catturano l'attenzione di tante persone per le quali la passione per un gioco può sovrastare la razionalità.
Rimane solo un dubbio, sollevato anche da diversi bloggers. Ovvero che il film più che un vero documentario sia invece una sorta di reality-movie a tema, tanto che ci sarebbero anche alcune smentite sulla versione dei fatti raccontata dal film. Il dubbio è sicuramente lecito, quello che di certo non è in discussione è l'efficacia della rappresentazione dell'ambiente di questi game-addicted e la conseguente godibilità di questo film, in certi momenti anche assai divertente.

venerdì 7 marzo 2008

Alexander McCall Smith - Un peana per le zebre

(The Kalahari Typing School for men), 2002
Guanda, 2004

pagg.52-53
«Provenienza polizia» disse la signora Ramotswe. «Quindi è un poliziotto in pensione. Questa è una cattiva notizia. Alla gente piacerà l'idea di esporre i propri problemi a un poliziotto in pensione».
«E provenienza New York, anche» disse piena di ammirazione la signorina Makutsi. «Questo farà davvero colpo. Tutti hanno visto qualche film con i detective di New York e sanno quanto sono bravi!»
La signora Ramotswe lanciò un'occhiata alla signorina Makutsi. «Tipo Superman?» chiese.
«Già» disse la signorina Makutsi. «Roba del genere. Superman».
La signora Ramotswe aprì la bocca per dire qualcosa alla sua assistente, ma si interruppe. Era al corrente degli straordinari risultati conseguiti dalla signorina Makutsi presso la scuola per segretarie del Botswana - era difficile ignorare il certificato in cornice che li testimoniava, appeso sopra la scrivania della signorina Makutsi - ma certe volte la trovava terribilmente ingenua. Superman, addirittura! Non riusciva proprio a capire come potesse interessare una tale stupidaggine a una persona che avesse superato i sei o sette anni di età. Eppure la trovavano interessante, eccome; quando arrivava un film del genere nel cinema della città, quello che apparteneva a un tipo molto ricco che abitava vicino a Nyerere Drive, una vera folla di persone era più che disposta a pagare il prezzo del biglietto. Certo, alcuni erano coppiette di innamorati, che non necessariamente seguivano quanto accadeva sullo schermo, ma gli altri sembrava proprio che andassero per il film.

pag.177
Finita la lezione e chiusa la sala riunioni, la signorina Makutsi uscì e lo trovò ad attenderla in macchina, come convenuto. Le propose di andare al cinema e poi a mangiare qualcosa in un locale. La proposta piacque molto alla signorina Makutsi, contentissima all'idea che questa volta, invece di andare come al solito al cinema da sola, avrebbe avuto accanto a sé un uomo, come quasi tutte le altre ragazze.
Il film brulicava di gente sciocca che viveva nel lusso, ma alla signorina Makutsi interessava poco e quasi non seguì la vicenda. Pensava solo al signor Bernard Selelipeng che, circa a metà della proiezione, le aveva preso la mano e le sussurrava frasi ardenti in un orecchio.