sabato 21 novembre 2009

Inglorious Basterds

L'amore di Tarantino per il cinema raggiunge il suo apice in questo film, esprimendosi non a caso anche come amore per il cinematografo.



Come si può esprimere meglio questo amore se non pensando al cinematografo come al luogo in cui sarebbe potuto morire Hitler e con lui tutto il vertice del Terzo Reich? Come il luogo in cui si sarebbe potuta concludere la Seconda Guerra Mondiale, tramite il suo sacrificio con un incendio annientatore e purificatore?

domenica 8 novembre 2009

REALTÀ MANIPOLATE

Ieri mattina ho avuto la fortuna di visitare la mostra Realtà manipolate - Come le immagini ridefiniscono il mondo, una mostra organizzata da Strozzina CCCS (Centro di Cultura Contemporanea) e attualmente in corso a Palazzo Strozzi a Firenze; ho visitato la mostra guidato da Alessio, uno degli operatori del CCCS, che è stato un ospite assai cordiale, competente ed efficace.


Pur non essendo un esperto di arte contemporanea il tema mi interessa molto, essendo oggi quello della manipolazione un tema centrale in campo cinematografico (il confine tra cinema documentario e cinema di fiction che, qualunque sia il punto di partenza, diventa sempre più sottile) e soprattutto nel campo dell'informazione e dei media che usano sempre più consapevolmente il loro ruolo di manipolatori della realtà. Lo stesso tema della memoria che ho enunciato nella presentazione del blog è strettamente correlato al tema della manipolazione, in quanto diventa sempre più urgente avere memoria, o riscoprire la memoria dei fatti accaduti, quando la manipolazione della realtà diventa pratica corrente come è oggi.

La mostra affronta il tema ovviamente da un punto di vista artistico, ma altrettanto ovviamente per un argomento del genere non mancano le sottolineature e le deduzioni di tipo sociale e politico. Le opere esposte sono tutte creazioni di artisti visuali e concettuali contemporanei, e sono fotografie analogiche, video e, solo in conclusione dell'esposizione, immagini create digitalmente.
Il percorso mostra le possibili manipolazioni della realtà secondo i diversi mezzi utilizzati e secondo i diversi impieghi (o non impieghi) delle immagini manipolate, contribuendo così a fornire un quadro chiarificatore e, forse, esaustivo sulle tecniche di manipolazione (visto il tema, il condizionale è d'obbligo).

Si incontrano così fotografie di riproduzioni di ambienti reali (come lo studio ovale della White House) volutamente seppur lievemente differenti dal reale, riproduzioni di fenomeni naturali (colate di lava, tornado) che, in quanto non unici, sono assai difficilmente distinguibili da una situazione reale e riproduzioni di situazioni che potrebbero essere vere ma che se lo fossero non sarebbero comunque divulgate in quanto portatrici di un significato politico inaccettabile (gli scenari di guerra in Iraq). Ma ci sono altre immagini che sono assolutamente reali, riprese durante la guerra in ex-Jugoslavia, e vengono censurate perché non hanno una 'ritmica' adatta ai tempi serrati dell'informazione giornalistica e al contrario ci sono immagini riprese dal vero in una strada dei sobborghi di Pittsburgh che possono essere diffuse senza problemi visto che sono riprese dalla street-car di Google, ma in realtà riproducono una realtà creata ad hoc da un gruppo di action-artists.

Il corto circuito anche semantico del mio post è inevitabile; il percorso della mostra comunica efficacemente il caos presente nella nostra civiltà dell'immagine, caos che raggiunge il suo apice con le immagini digitali nelle quali una realtà ormai indistinguibile (il foglio di carta accartocciato) può essere espansa e moltiplicata potenzialmente all'infinito. Un caos che però è perfettamente razionale per i manipolatori della realtà, e mi riferisco ai comunicatori, pubblici o privati che siano.

È sottinteso che consiglio a chiunque di fare una gita a Firenze per visitare la mostra. Concludo dicendo che la mostra fa parte di un più ampio progetto sulle realtà manipolate, al cui interno sono previste conferenze, eventi e anche la proiezione di Ceský Sen, già svolta con successo lo scorso 22 ottobre utilizzando i sottotitoli che ho tradotto in italiano per le proiezioni del Cineclub Fratelli Marx. Questo ha dato a tutti noi del Cineclub una grande soddisfazione!

lunedì 26 ottobre 2009

qui c'ero anch'io

Non proprio così vicino, ma comunque in ottima posizione.
Per la cronaca, si è trattato di Carousel: The Songs of Jacques Brel, un concerto in omaggio a Jacques Brel che si è tenuto alla Barbican Hall di Londra giovedì scorso, il 22 ottobre.



Questa qui sopra è Camille O'Sullivan, a mio giudizio la migliore interprete della serata. Sì, perché nel corso del concerto si sono avvicendati sei diversi interpreti, nell'ordine: Momus, Arthur H., Diamanda Galas, Camille O'Sullivan, Arno e Marc Almond, con il gran finale di Jacky cantata a tre da Almond, O'Sullivan e Momus, come si vede qui sotto:



Un altro brano dei migliori è stato I'm coming cantato da Marc Almond, non solo per la sua interpretazione ma anche - ed è strettamente connesso - per la introduzione estremamente personale che l'ha preceduto, e che si può ascoltare all'inizio del video:



Nessuno ha ancora postato i video delle canzoni di Diamanda Galas, probabilmente perché i fan più ortodossi di Jacques Brel sono inorriditi alle sue interpretazioni così estreme e destrutturate. Io trovo che certe canzoni di Brel (tra cui proprio quelle che la Galas ha cantato) si possono prestare bene al suo stile dark; sono piuttosto inorridito al suo francese, quello sì veramente terrificante.

Bene, chiudo in bellezza ancora con Camille e la sua travolgente e commovente interpretazione di Au suivant, una delle canzoni più intense, dissacranti, oltraggiose e moderne di Brel, sicuramente tra le mie più amate.

lunedì 28 settembre 2009

Michel Foucault e il nostro Presidente del Consiglio...

... sicuramente non si sono mai incontrati, anzi dubito che Burlesqoni sappia chi sia Michel Foucault, al massimo potrà azzardare che è il centravanti del Paris St. Germain. Ma il loro punto di congiunzione mi è balenato leggendo un famoso e ancora oggi interessante libro del filosofo francese: Sorvegliare e punire - Nascita della prigione, che si può agevolmente trovare in edizione tascabile di Einaudi.

In questo libro, Foucault ripercorre e interpreta la storia dei criteri punitivi utilizzati verso i criminali, a partire dalle esecuzioni e punizioni inflitte sulla pubblica piazza che caratterizzavano l'ancien régime per passare, a seguito delle sollecitazioni provenienti dal celebre Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria e dalle spinte illuministiche originanti e seguenti la Rivoluzione del 1789, verso il regime carcerario. Modalità di punizione diametralmente opposte che dipendono essenzialmente, secondo Foucault, da un diverso modo di esercitare il potere, diventato non meno severo ma semplicemente più razionale.

A pag.143 del mio libro, Foucault sintetizza molto chiaramente i tre stadi di questa evoluzione. E leggendo come descrive il primo di questi stadi, quello relativo al monarca assoluto, non ho potuto evitare di fare un'associazione con le strategie che il nostro Presidente del Consiglio sta mettendo in atto in questi giorni per far tacere la stampa a lui contraria.

Con una larga schematizzazione, possiamo dire che, nel diritto monarchico, la punizione è un cerimoniale di sovranità; utilizza i marchi rituali della vendetta che applica sul corpo del condannato e ostenta agli occhi degli spettatori un effetto di terrore tanto più intenso quanto più discontinuo, irregolare e sempre al di sopra delle sue proprie leggi, è la presenza fisica del sovrano e del suo potere.

Ci sono almeno tre termini che consentono una perfetta identificazione tra quanto scritto da Foucault e la nostra disperata situazione attuale: vendetta, spettatori e al di sopra delle sue proprie leggi. Anche se non esiste un condannato (almeno per adesso, ma ciò sotto un certo aspetto è anche peggio), il resto coincide con grande precisione: Burlesqoni vuole chiaramente mettere in atto una vendetta, vuole consumarla in pubblico davanti a spettatori che non sono più quelli delle piazze cittadine bensì quelli delle ben più ampie piazze telegiornalistiche e per ottenere questo suo scopo se ne frega altamente delle leggi, quando va bene se le fa abrogare. Ne consegue, per un evidente sillogismo, che il nostro non è un Presidente del Consiglio ma è un sovrano.

Proseguiamo leggendo come Foucault descrive gli altri due stadi del sistema punitivo:

Nel progetto dei giuristi riformatori, la punizione è una procedura per riqualificare gli individui come soggetti di diritto; essa utilizza non dei marchi, ma dei segni, degli insiemi codificati di rappresentazioni, e di questi, la scena del castigo deve assicurare la circolazione più rapida e l'accettazione più universale possibile. Infine, nel progetto di istituzione carceraria che viene elaborato, la punizione è una tecnica di coercizione degli individui; essa pone in opera dei processi di addestramento del corpo - non dei segni - con le tracce che questo lascia, sotto forma di abitudini, nel comportamento; essa suppone la messa in opera di un potere specifico di gestione della pena.

Qui siamo già piuttosto lontani dai comportamenti e dalle intenzioni del nostro Presidente: la scelta della reclusione comprende infatti assieme al carattere punitivo anche un fine educativo, rivolto sia al condannato (che ha la possibilità di riflettere sulle proprie azioni e di valutarne il minore vantaggio rispetto alla pena subita) che alla comunità, che vede nella pena inflitta un deterrente verso i propri istinti criminali e un esercizio del potere che dovrebbe essere non solo inesorabile ma anche umano, che lascia ai colpevoli la possibilità di redimersi. Ne risulta che nel testo sopra citato ci sono almeno tre parole che nel loro significato più profondo sono molto distanti dal pensiero e dalle azioni di Burlesqoni: diritto, universale, gestione.

Per finire, Foucault mette in parallelo i tratti caratteristici di queste tre modalità di esercizio del potere punitivo (tre tecnologie di potere, come le definirà più avanti), così rafforzando la chiarezza della sua esposizione (gli a capo sono miei):

Il sovrano e la sua forza, il corpo sociale, l'apparato amministrativo.
Il marchio, il segno, la traccia.
La cerimonia, la rappresentazione, l'esercizio.
Il nemico vinto, il soggetto di diritto in via di riqualificazione, l'individuo assoggettato ad una coercizione immediata.
Il corpo suppliziato, l'anima di cui si manipolano le rappresentazioni, il corpo che viene addestrato.


Duecentoventi anni fa, il passaggio dall'esecuzione in piazza all'esecuzione nascosta al pubblico e poi alla reclusione era stato l'evidenza di un progresso umanistico e filosofico che aveva condizionato l'esercizio del potere, che da allora in poi gradualmente passerà da potere assoluto a potere democratico. Oggi mi sembra che stiamo tornando un po' indietro... cosa ci vuole ancora per svegliarsi?

domenica 6 settembre 2009

VIDEOCRACY - Erik Gandini (2009)

Per una volta contravvengo alla mia regola di parlare in questo blog solo di film, libri, cose del passato che bisogna secondo me ricordare e parlo invece di un film appena uscito e molto discusso già prima dell'uscita in sala.

Il motivo per cui ne parlo è che penso, dopo avere visto il film, che si tratta di uno di quei film che serviranno a tenere salda nel tempo la memoria di questi tempi bui che stiamo vivendo qui in Italia. Nella speranza che tra pochi anni si possa ripensare al 2009 con il sospiro di sollievo di chi si è lasciato alle spalle il peggio, e magari da quel peggio ha imparato a stare meglio. Ma dato che quello che una volta era inimmaginabile oggi ci è sempre più indifferente, meglio non farsi troppe illusioni.

Venendo a Videocracy: Gandini (presente in sala ma purtroppo solo prima dell'inizio della proiezione) ha ricordato giustamente che ha realizzato il film pensando al pubblico svedese, o comunque a un pubblico non italiano. Questo è importante da sapere, perché il pubblico italiano un po' più avveduto (che dovrebbe essere quello che va a vedere Videocracy) non si stupisce più di tanto a quello che vede nel film, sono cose purtroppo già note e risapute, anche se la loro accumulazione provoca indubbiamente un senso di orrore.

Guardando con un po' di distacco, si capisce come secondo me Gandini abbia centrato in pieno il nocciolo della situazione italiana e il modo con cui raccontarla: la sinergia tra potere politico e potere mediatico che si rafforzano l'un l'altro mediante la progressiva ebetizzazione degli italiani e la scelta di soli tre testimonial che però dicono tutto e rappresentano le tre figure, i tre ruoli di questo "gioco": il burattinaio, il frontman e la vittima consenziente. Dietro di loro, sopra di loro, ovunque, colui che più di tutti da 15 anni sta raccogliendo i frutti di questo gioco, ovvero l'attuale presidente del consiglio (il cui nome è bandito in questo blog).

I tre personaggi sono rispettivamente il manager Lele Mora, il bad boy Fabrizio Corona e l'aspirante personaggio televisivo Ricky. Non mi va di parlare dei primi due perché rappresentano quella tipologia di persone che vorrei scomparissero immediatamente dalla faccia della terra, che tutti a parole disprezzano ma in realtà invidiano. Mi interessa di più Ricky, che rappresenta in maniera perfetta il tipo di italiano che è sempre più maggioranza: buon ragazzo, ignorante al punto giusto da dedicare alla televisione tutte le sue aspirazioni, rovinato da una madre castratrice così terribilmente tipica della nostra 'sana' Italia e così deleteria per la crescita umana e morale delle nuove generazioni. Questa è l'Italia che il potere mediatico e politico ha sfruttato e ha allargato, garantendosi così una rendita di posizione politica ed economica per chissà quanti anni ancora. La storia è sempre la solita da secoli: alcune sopraffine intelligenze criminali che prosperano alla faccia del popolo cretino, però mai così contento e partecipe di essere cretino.

Certo, quello che manca nel film è l'altra parte d'Italia, quella che anch'essa negli ultimi anni ha governato il paese e nulla ha fatto per modificare la videocracy, né una seria legge sul conflitto d'interessi né una raddrizzata alla inguardabile televisione pubblica. Ma questo non mi sembra un difetto: trovo giusto concentrare il fuoco su pochi elementi (che sono comunque i più importanti) e comunque, come ci insegnano Mora e Corona, nella società dell'apparire il silenzio assoluto è di per sé una bella condanna. Mi sembra infatti di ricordare che mai una volta nel film la sinistra venga citata e che non ci siano dichiarazioni di suoi esponenti. Sulla sinistra degli ultimi 15 anni ben più di un documentario ci vorrebbe...

Per concludere, ho letto nelle cronache dal Festival di Venezia che, vedendosi nel film, Ricky si sarebbe reso conto di quanto era ridicolo. Beh, se l'ha scoperto lui allora forse anche tanti altri possono capire cosa sta realmente succedendo. Basta, ogni tanto, fargli vedere anche dei film, non solo tette e culi.

martedì 11 agosto 2009

LE FAR WEST - Jacques Brel (1973)

Sarebbe veramente troppo facile sparare a zero su Le Far West, il secondo e ultimo film scritto e diretto e ovviamente interpretato da Jacques Brel.

Le Far West è l'episodio che ha messo fine alla carriera cinematografica di Brel, ed è quasi riuscito a mettere fine alla sua carriera artistica tout-court, se non fosse che l'irrefrenabile desiderio di esprimersi lo ha portato a registrare nel 1977 il suo ultimo omonimo album.

Le ragioni di questo allontanamento stanno nell'ostilità con cui sia pubblico che critica hanno accolto il film, che peraltro portava con sé un livello di attesa piuttosto alto, dopo il suo inserimento nella selezione ufficiale del Festival di Cannes del 1973 e l'ottimo esordio alla regia nel 1972 con Franz.

Si sa che più alta è l'attesa verso un film, più cocente è la delusione quando la sua accoglienza è negativa, ma a parte questo Le Far West presenta effettivamente una serie di errori e di incomprensioni che da un lato in parte giustificano il trattamento ricevuto, dall'altro ne hanno reso un oggetto misterioso e da tutti dimenticato su cui vale la pena tornare a riflettere.

Io credo che Jacques Brel avesse un talento potenziale anche per la regia e la recitazione; non certo al livello inarrivabile di cantante, poeta e performer mostrato durante la sua carriera musicale, ma probabilmente un talento superiore alla media. Il problema è stato che nel cinema Brel non ha trovato i Rauber e Jouannest che, incontrati alla fine degli anni '50, gli hanno fatto spiccare il volo nel mondo della chanson. Detto in altri termini, Brel aveva secondo me bisogno, sia come sceneggiatore che come regista (e anche come attore) di un partner più esperto o semplicemente più severo che ne disciplinasse e controllasse l'immensa capacità creativa. Mancando questo, viene a mancare (come appunto in Le Far West) la capacità di trovare un linguaggio e una misura del gesto registico e interpretativo necessari per comunicare al meglio il senso del racconto.

Troviamo così in Le Far West innanzitutto un grosso errore 'tattico' di scrittura: il film inizia con i personaggi già perfettamente delineati, e tali personaggi (mi riferisco ai 3 protagonisti; Jack, Gabriel e Lina) non cambieranno di una virgola durante tutto il film; questo fa sì che venga a mancare totalmente l'effetto di sorpresa o di attenzione verso la trama, perché e chiaro fin da subito che ci troviamo di fronte a personaggi donchisciotteschi che porteranno avanti testardamente la loro missione senza cambiare il mondo e senza venirne cambiati. Credo che almeno un accenno all'esistenza anteriore dei protagonisti, un loro anche minimo dettaglio psicologico, avrebbe giovato molto all'interesse del pubblico. A peggiorare le cose è la costruzione frammentata della trama, nel senso che la storia, già di per sé molto esile, prosegue solo a forza di episodi, ognuno solo debolmente legato agli altri e presentato in sequenza, quasi come fossero canzoni che compongono un album. Non è un caso che a mio avviso sia il finale la parte migliore del film, quando finalmente gli episodi si intrecciano e vanno avanti in parallelo usando un linguaggio cinematografico adeguato dato dall'uso del montaggio alternato. Per finire, non migliora la situazione lo stile abbondantemente in uso nel cinema medio degli anni '70, che oggi in molte situazioni appare piuttosto stucchevole e ridondante.

Ciò detto, non posso però limitarmi a un cahier de doléances, perché da conoscitore e appassionato di Brel non posso non scorgere gli elementi di interesse di questo film. Intanto, chi conosce bene Brel trova disseminati lungo il film alcuni degli elementi caratterizzanti la sua opera artistica e la sua vita personale: dalla ripetuta citazione di Don Chisciotte a certe battute sul Belgio che solo Brel poteva permettersi, per finire con le numerose riprese fatte dall'aereo, che in quegli anni era il suo passatempo preferito, così frequentato che doveva avergli evidentemente 'imposto' di usare con abbondanza il particolare punto di vista aereo per le riprese. Da questo si deduce tra l'altro che il film è sicuramente costato parecchi soldi (ci sono anche delle demolizioni di edifici non piccoli appositamente realizzate) e quindi che il suo fallimento non è stato solo artistico ma anche commerciale.

Ma il riferimento più importante e più ovvio è quello relativo al discorso sull'infanzia. L'infanzia è stato uno dei temi delle canzoni di Brel, non quello che ha più frequentato ma senz'altro uno di quelli che ne hanno maggiormente marcato la distanza di qualità poetica nei confronti della generalità degli altri cantautori. In Le Far West i personaggi sono tutti adulti, alcuni addirittura anziani, ma lo sono solo anagraficamente, perché le cose che fanno e che dicono li caratterizzano come bambini, o come adulti non cresciuti; si aggregano tra di loro semplicemente per simpatia e vanno alla ricerca del loro Far West e dell'oro in esso nascosto proprio come un gruppo di bambini (di quelli di qualche decennio fa, certo!) andava all'avventura negli squarci di terreno incolto ai bordi delle città o all'interno dei palazzi in costruzione.

Le Far West è quindi interamente costruito sul concetto tipicamente breliano che l'infanzia è il periodo della vita in cui gli individui si formano il proprio immaginario, i propri sogni e obiettivi di vita ma che una volta arrivati all'età adulta tutto ciò dovrà essere messo nel cassetto e chiuso a chiave perché non potrà in alcun modo far parte della vita delle persone adulte. Contro questo concetto Brel furiosamente combatteva scrivendo i suoi testi e con le dichiarazioni rilasciate nelle interviste. Quello che per tutti si può considerare come la normalizzazione dell'età adulta, per Brel invece è la perdita della sincerità, del sogno, della purezza infantile, della capacità di stare assieme agli altri, e bisogna quindi che apra gli occhi e si dia da fare per cercare di riconquistare la propria essenza perduta.

Se non si comprende e non si accetta questo pensiero è impossibile anche minimamente apprezzare un film come Le Far West. Ed è proprio qui il punto: come può un pubblico di adulti come siamo praticamente tutti noi, che sopravviviamo avendo archiviato i nostri sogni, immedesimarsi nei personaggi del film o anche semplicemente assecondarne i dialoghi e le azioni? È questa la grande sfida - clamorosamente perduta - posta da Jacques Brel in questo film: convincere le persone che col passare degli anni hanno dimenticato l'innocenza e la purezza dell'infanzia, almeno per gli 85 minuti di durata di Le Far West, a tornare a pensare come un bambino, agire come un bambino, avere la stessa capacità di stupirsi, di indignarsi e di creare sogni che solo un bambino può avere.

Questi sono concetti che Jacques Brel riusciva splendidamente a trasmettere nei tre minuti di tempo di una canzone, con la sua voce e presenza scenica e con il solo aiuto dei musicisti di supporto. La realizzazione di un film, e soprattutto la creazione di un linguaggio cinematografico che sia in grado di realizzare l'ambizione di Brel, ovvero rappresentare i concetti e i pensieri più che le azioni, sono però opera molto più complessa che non può poggiare sulle spalle di un uomo solo. Quindi Le Far West è, e temo sarà sempre di più, un film destinato al circolo ristretto di sognatori irrecuperabili e di incondizionati appassionati di Jacques Brel.

martedì 4 agosto 2009

un pensiero per Michael Jackson


Avendo passato una settimana in montagna dove sono stato esposto all'abitudine familiare di passare in rassegna tutti i telegiornali dell'ora di pranzo e dell'ora di cena, telegiornali nei quali si continua a mantenere una forte attenzione sul caso della morte di Michael Jackson, ho deciso di dedicare all'ambigua popstar una citazione di Jacques Brel:

"Attualmente, un grande artista è un artista che vende molti dischi. Tutto ciò è una vera fandonia, ed è profondamente disonesto".

domenica 19 luglio 2009

LES LIENS DE SANG - Jacques Maillot (2008)

Sarà perché la generazione (o meglio la coorte, se vogliamo usare il termine demografico corretto) che è più attiva in questi anni è quella che allora viveva i suoi anni giovanili e infantili, sarà perché stiamo arrivando alla giusta distanza per avere uno sguardo distaccato, o anche perché molti dei protagonisti di allora non sono più in vita, fatto sta che è cresciuto molto l'interesse verso gli anni '70, nel cinema e nella società, in Italia così come un po' in tutto il mondo.

Io fortunatamente mi inserisco nella prima delle tre motivazioni succitate, e sarà certamente per quello che, da un po' di tempo a questa parte, quando mi trovo a guardare un film girato o ambientato negli anni '70 vengo rapito da un bel sentimento di malinconia. Di malinconia e di tenerezza, facilmente stimolate dal ricordo dei vestiti, delle acconciature, delle automobili, dei cibi, degli ambienti, tutte cose che viste al giorno d'oggi appaiono così artigianali e quindi così umane in confronto alla digitalizzazione e alla standardizzazione imperante oggidì.

Per parlare degli anni '70 ci vorrebbe un libro intero, altro che un post, e in fondo io vorrei parlare solo di un film; mi limiterò a concludere il preambolo affermando che negli anni '70 c'è stato molto più di buono di quanto ci è sempre stato raccontato dagli anni '80 a oggi.

Certo, perché l'immagine che si è data dai media agli anni '70 è quella degli anni di piombo, che hanno certamente molto pesato in Italia e in Germania. In Francia non si sono verificati a mia memoria grandi episodi di terrorismo, ma evidentemente c'erano casi di criminalità comune molto aggressiva e violenta che sono rimasti impressi nell'immaginario collettivo. Suppongo quindi che sia per questo che a breve distanza dal film in due parti dedicato al bandito Mesrine è uscito anche questo, decisamente migliore, film dedicato a un altro incorreggibile bandito dalla pistola facile e senza paura di poliziotti e bande rivali.

In Italia questo film non è arrivato, perché la qualità è ormai il secondo (quando va bene) criterio di scelta dei distributori: Mesrine aveva come protagonista Vincent Cassel (che in Italia è non tanto un buonissimo attore quanto piuttosto il marito della Bellucci), lo hanno anche mandato a Sanremo a pubblicizzare il film, ma tutto questo non è servito ad abbindolare il pubblico, che dopo il primo weekend ha disertato le sale che lo programmavano (e quindi ovviamente il secondo episodio ha avuto incassi miserrimi).

Qual è la differenza tra questi due film? Mesrine è solamente un'americanata, un action movie senza passione alcuna: solo sparatorie, scopate e scazzottate che annoiano mortalmente già dopo 10 minuti. Les liens de sang contiene sparatorie, scopate e scazzottate ma è pieno anche di sentimento e di nostalgia verso quel periodo così ricco di fascino. E poi la trama è molto più articolata, potendo giocare con una certa astuzia sul rapporto tra fratello bandito e fratello poliziotto, ripresentando in maniera non pedissequa il tema dell'attrazione latente reciproca tra guardie e ladri (e, meno latente, verso le compagne di guardie e ladri) tanto caro anche al grande James Ellroy.

Non so se i personaggi narrati dal film siano come Mesrine realmente esistiti, né ho verificato se il regista Jacques Maillot sia un mio coetaneo con affinità di sentimenti verso gli anni '70, sono fatti che non cambierebbero il mio giudizio del film, che vive benissimo di vita propria anche senza queste informazioni. Soprattutto non sarebbero in grado di placare la mia nostalgia verso quegli anni perduti e la mia ammirazione verso paesi come la Francia che ci battono alla grande nel cinema e non solo in quello.

domenica 17 maggio 2009

Alfred Döblin - Viaggio in Polonia

Bollati Boringhieri, 1994

pag.28

Cinema, Ossi Oswalda. Una fortuna, non capire niente del testo; qui tutti bisbigliano, non appena compaiono le didascalie; un mormorio, un sibilo va per la sala. Questa musica ti rende felice; soltanto un pianoforte, due violini e una viola; tutti brani noti, anche tedeschi, ma in che modo eseguiti! (...) E qui. Il film narrava... non so cosa. Io guardavo solo di tanto in tanto. La musica dei violini mi entrava nel sangue in modo celestiale. Ogni volta che guardavo, Oswalda ne aveva sedotto un altro; aveva rovinato l'amante, l'aveva spinto a spararsi un colpo; con quest'altro... invece fa la santa. Semplici fatti d'amore, le «trame» sono del tutto irrilevanti, si rivedono sempre le stesse situazioni. Questa è la dolce vita.
E che bei giovanotti, che belle ragazze siedono vicino a me, si lasciano incantare dal film, ascoltano invogliati, bramosi di imitazione.

domenica 19 aprile 2009

NIWEMANG - Bahman Ghobadi (2006)

Niwemang è un film pieno di "mescolanze", di intersezioni e sovrapposizioni, ed è anche un film molto mobile, in senso fisico e metaforico.
Vedo di spiegare meglio questo incipit molto criptico. Le "mescolanze" sono davvero tante: innanzitutto a livello produttivo, visto che il film ha una nazionalità estremamente composita, essendo una coproduzione austro-francese-iraniana-irachena, una di quelle ormai comuni operazioni necessarie per permettere la realizzazione di film in paesi che non dispongono di grandi risorse economiche per il cinema e poi soprattutto per dischiudere a questi film una circolazione commerciale nei paesi più importanti (tra i quali ovviamente non c'è l'Italia, in cui Niwemang non è uscito se non alla Festa del Cinema di Roma). A volte queste operazioni produttive danno luogo a film molto standardizzati, pensati appositamente per i festival e per il pubblico d'essai, ma io credo sinceramente che appartenesse più a questo filone un precedente film di Ghobadi che infatti in Italia a suo tempo uscì nelle sale, Il tempo dei cavalli ubriachi.

Niwemang mi sembra molto più originale, meno "etnico" e più moderno, proprio per via di tutte le mescolanze di cui non ho ancora realmente parlato. La più rilevante di esse mi sembra quella che testimonia della condizione di crossover storico e geografico in cui viene collocata la storia: una incredibile, allungatissima genìa di musicisti che viene raccolta dal vecchio Mamo, musicista lui stesso e genitore di tutta la troupe viaggiante su un attrezzatissimo pullman che cercherà di portarli dal Kurdistan iraniano al Kurdistan iracheno, per tenere il primo concerto dopo la fine della guerra e riportare quindi un po' di normalità in quella terra martoriata.
Essendo così "allungata", la famiglia si compone di persone di età molto differenti, dal giovane adulto con pc portatile e collegamento wireless a internet al figlio più anziano che da buon artigiano liutaio vorrebbe starsene in pace nel suo magnifico laboratorio. La famiglia è così un microcosmo di mentalità e atteggiamenti diversi che testimoniano della vorticosa irruzione della modernità nei paesi del Vicino Oriente e della sua mescolanza con la ricca tradizione ancora viva.

Forse anche per assecondare queste diversità, pure il film ha uno stile tutt'altro che lineare, passando di volta in volta da toni di commedia a toni drammatici, alternando anche momenti sospesi di grande realismo ad altri in cui si impongono scelte più rivolte alla rappresentazione del surreale e del sogno. In particolare, trovo molto bergmaniana e decisamente ben fatta la rivelazione che questo viaggio così complesso, irto di ostacoli e di imprevisti, declinerà progressivamente verso la consapevolezza che per Mamo si tratterà del viaggio verso la sua morte. Non solo quindi c'è lo spostamento fisico del gruppo nei quattro paesi in cui è spezzata la terra dei Kurdi (Iran, Azerbaigian, Turchia e Iraq), ma anche l'avvicinamento del capofamiglia, il grande vecchio portatore della tradizione e da tutti conosciuto e rispettato, alla fine dei suoi giorni, come metafora del rischio della scomparsa della tradizione e cultura kurde, minacciate dalla divisione politica e dall'arrivo della modernità.

Forse dalla mia descrizione Niwemang può sembrare un film complesso e pesante; in realtà si tratta di un film, sia pur ricchissimo di temi, dotato di grande freschezza e quindi molto, molto appagante per chi è curioso di vedere luoghi, storie e personaggi diversi dai soliti. Peccato che, essendosi esaurita quella piccola moda del cinema iraniano di Kiarostami e Makhmalbaf, gli acuti distributori italiani abbiano pensato che non valesse la pena di farcelo vedere.

lunedì 12 gennaio 2009

GREAT WORLD OF SOUND - Craig Zobel (2007)

La Great World of Sound è una piccola casa discografica che cerca in giro per gli States nuovi talenti da lanciare sul mercato. Il suo boss, Shank, può vantare alcune grandi scoperte fatte nel recente passato, testimoniate da una bella collezione di dischi d'oro. Tutto questo, assieme a poche ma chiare strategie di vendita, viene insegnato agli aspiranti talent-scout che faranno capo alla nuova sede distaccata di Charlotte, North Carolina. Tra gli aspiranti talent-scout ci sono Martin, bianco magro biondo calmo e garbato, e Clarence, nero robusto irruento incontenibilmente simpatico, che faranno coppia fissa per valutare le audizioni delle aspiranti star che risponderanno agli annunci della Great World of Sound. Ben presto però Martin e Clarence scoprono che la GWS non è altro che una meschina truffa, sia nei confronti degli aspiranti cantanti a cui viene richiesto di sborsare 3.000 dollari per la promessa di incidere un disco, sia per loro due, che vedranno ben pochi soldi rispetto a quelli favoleggiati da Shank.
Raccontato così, Great World of Sound sembra essere un film deprimente o di quelli che fanno indignare per una delle solite truffe ai danni dei più ingenui e ottimisti. Invece, pur non mancando questi due aspetti, io l'ho trovato soprattutto delicato e (uso un'allocuzione religiosa e questo un po' mi preoccupa), pieno di grazia. Perché i nostri due eroi non sono completamente ingenui, hanno capito subito il lato truffaldino della loro attività, ma ciò nonostante sono dotati (soprattutto Martin) di un ottimismo e di una convinzione di fondo con i quali cercano onestamente di fare qualcosa di buono per le aspiranti stars, salvo poi mandare tutto a monte quando la situazione diventa insostenibile.
La storia deriva da un'esperienza vera del regista, il cui padre negli anni '70 faceva esattamente il mestiere di Martin e Clarence. Ci dice Zobel di essere ancora stupito che suo padre, che era una brava persona, potesse per professione truffare gli altri sulla loro speranza.
Ma la tenerezza del film deriva soprattutto da una grande trovata di messa in scena: le audizioni che vediamo nel film non sono fatte da attori scelti dal casting, bensì da veri aspiranti cantanti che hanno risposto a finti annunci pubblicati sui giornali. Le scene sono state riprese da video camere nascoste, per cui l'atteggiamento di queste persone è quanto mai naturale, le loro doti artistiche vere o presunte sono quelle loro reali, e le reazioni dei due attori sono spontanee - così come le reazioni di fronte alla richiesta dei 3.000 dollari!
Alla fine di ogni ripresa, la troupe ha raccontato la verità a questi cantanti, che hanno quasi tutti firmato la liberatoria per l'utilizzo nel film delle immagini in cui essi compaiono.
Abbiamo così un film che è sia fiction che documentario e che è soprattutto la dimostrazione di come le buone idee di sceneggiatura e di regia non siano ancora esaurite. Il più è scoprirle: ci sono quelli che dovrebbero fare gli scout di mestiere ma non le vedono mai...

domenica 4 gennaio 2009

LADRÓN QUE ROBA A LADRÓN (Joe Menendez, 2005)

Come spesso succede, è quando ti avvicini a un film senza avere grandi aspettative che scopri delle piacevoli sorprese. Questo è stato per me il caso di Ladrón que roba a ladrón, che sospettavo veramente potesse essere una gran boiata. In verità i primi minuti di film mi stavano confermando questo sospetto: attori bellocci e palestrati, messa in scena senza pretese e fotografia molto piatta stavano facendomi pensare a un sotto-sottoprodotto hollywoodiano. Però poi strada facendo il film migliora molto, e alla fine mi ha lasciato piacevolmente spensierato, con un lieve retrogusto di satira sociale.
Si tratta infatti di un tipico heist-movie (alla Colpo grosso oppure Ocean's 11-12-13, per intenderci), costellato di tutti gli inconvenienti e le sorprese che devono spuntare in un film di questo genere, con la differenza sostanziale che il colpo è architettato e realizzato da un gruppo di latinos residenti in California ai danni di un altro latino ex-collega di furti che si sta facendo montagne di soldi truffando i poveracci, ancora soprattutto latinos, con la pubblicità e la vendita televisiva di presunti farmaci e prodotti curativi. Una specie di Robin Hood latini quindi, con un fondo di semplice moralismo ma anche con una buona e giusta dose di presa in giro della stupidità yankee e del sistema di marketing basato sui media.
Al di là di analisi socio-politiche che in questo caso sono forse eccessive, visto la caratteristica di puro entertainment del film, è comunque interessante osservare che inizia a esistere una produzione statunitense di film prodotti e realizzati da cast e attori di provenienza latina, e destinati in prima battuta al pubblico di lingua ispanica. Non a caso infatti il simpatico gruppo di ladroni è composto d un mélange di nazionalità (argentini, cubani, colombiani, messicani), che ci dà l'immagine di quanto sia variegato il fenomeno dell'immigrazione latina negli USA e come, furbescamente, il film strizzi l'occhio proprio a loro. Ma dopo tante ditate negli occhi da parte delle potenti major di Hollywood, questa è una trovata che si può perdonare volentieri.