domenica 27 luglio 2008

ARMORED CAR ROBBERY (Richard Fleischer, 1950)


Un B-movie che più ‘B’ non si può, con attori sconosciuti, ritmo serrato e breve durata, una vera palestra per il regista Richard Fleischer, che col tempo sarebbe poi diventato un apprezzato esecutore al servizio delle major di Hollywood per la realizzazione di film di genere a grosso budget come Viaggio allucinante o Tora! Tora! Tora!.
Fleischer ha iniziato la sua carriera come regista di film noir (Bodyguard del 1948 è uno dei suoi primi lungometraggi), e da subito lascia intravedere una mano sicura nella direzione degli attori e un particolare interesse per l’ambientazione del plot. In questo film l’azione si svolge a Los Angeles, e Fleischer coglie in pieno la particolarità di questa metropoli, meno concentrata di New York o Chicago che sono state le ambientazioni tipiche del genere noir americano. L’azione si trasferisce infatti in modo fluido da spazi tipicamente cittadini ad altri più industriali come il porto mercantile o i campi di trivellazione del petrolio, sempre con un’illuminazione più solare, più californiana, pur non mancando le classiche scene notturne.
Per quanto riguarda la trama, sembra per certi versi di trovarsi in un romanzo di James Ellroy, essendo il film la caccia da parte dei poliziotti di L.A. a un gruppo di criminali che durante la rapina a un furgone portavalori ha ucciso in una sparatoria un detective intervenuto sul luogo. La differenza fondamentale è che nel film i poliziotti appaiono sì spietati nella loro determinazione a farla pagare agli assassini del loro compagno, ma sono tutto sommato virtuosi. Los Angeles insomma non è ancora rappresentata come quella mela bacata che nel 1950 aveva già iniziato ad essere, come Ellroy ha mirabilmente raccontato.
L’approfondimento psicologico è molto limitato per non dire nullo, ma il film fila via liscio come l’olio, e per questo è una visione molto piacevole. Ci sono infatti alcuni momenti di azione pura (ad esempio la scena della rapina) veramente originali e ben fatti che anche oggi, pure a noi spettatori del XXI secolo rovinati dagli effetti speciali, riescono a farci trattenere il fiato per qualche istante.

sabato 26 luglio 2008

REPRISE (Joachim Trier, 2006)

Quando è finito Reprise sul mio lettore dvd, la prima cosa che ho pensato è stata: ma perché in Italia non ne facciamo di film così? Indipendentemente dalla sua riuscita - Reprise è un film buonissimo ma certo non epocale - ci sono tipologie di film che in Italia proprio non vengono forse neanche prese in considerazione. Il cinema italiano è in un buon momento di salute già da diversi anni, ma fondamentalmente sono sempre due i film che vengono fatti: le commedie di costume e i film drammatici (intimisti, psicologici o sociologici), comunque sempre o quasi sempre opere legate strettamente alla realtà sociale e politica del paese. (Naturalmente ci sono anche i cinepanettoni e le estati al mare, che drammaticamente sono pure essi strettamente legati alla realtà culturale e sociale del nostro paese).
Fare film che parlano dei problemi del nostro tempo è un'ottima cosa, probabilmente la migliore che si possa fare nel cinema, ma non credo che si possa prescindere dall'offrire film di pura finzione, che siano collocabili nel nostro tempo e nel nostro luogo così come in altri tempi e altri luoghi. Questa limitatezza di orizzonte è tra l'altro il motivo principale per cui i film italiani sono poco esportabili, e non è un caso che il nostro più grande successo all'estero degli ultimi 40 anni sia stato un film tipicamente universale come La vita è bella. La mancanza di film che facciano semplicemente viaggiare la mente, senza necessariamente ancorarla ai nostri problemi quotidiani, deriva secondo me dal nostro carattere, dal nostro vivere alla giornata, e tutto questo si è senz'altro acuito in questi ultimi anni in cui ci siamo ancora più introflessi, in cui gli slanci di ottimismo e di speranza nel futuro sono scomparsi.
Tutta questa pappardella mi serve per spiegare che io penso che per realizzare - e per vendere e infine vedere - un film come Reprise sia necessario avere grande libertà espressiva, grande apertura mentale, conoscenza diretta e genuina del mondo giovanile e non da ultimo una grande fiducia nel pubblico che può andare a vedere il film. Reprise racconta la storia di due giovani amici che hanno l'ambizione di diventare scrittori, e in modi e tempi diversi entrambi riusciranno ad avere il loro successo. Scrittori seri però, mica come quelli che parlano di lucchetti attorno ai lampioni dei ponti. Ora, pensare di proporre al pubblico giovanile italiano come modelli due ventitreenni che dedicano i loro maggiori sforzi alla scrittura di un romanzo, è pura follia; proporre al pubblico ultra50enne italiano un film frammentato, ipercinetico, calato interamente nella vita dei ventenni di Oslo (che però potrebbero essere di tante altre città, forse non italiane), è un'altra bella sfida. In Norvegia evidentemente le condizioni per fare film così ci sono, beati loro. Lo si capisce anche da questa intervista al regista Joachim Trier. Il quale, tra parentesi, ha i genitori entrambi professionisti del cinema, è lontano cugino del più famoso Lars Von e da ragazzino è stato campione norvegese di skateboard.
Come dicevo all'inizio, Reprise non è da considerarsi un capolavoro, in quanto a volte riproduce certi stereotipi del cinema "letterario" (che parla di scrittori) e alcuni passaggi narrativi sono un po' caotici, ma come pregi ha innanzitutto sui titoli di testa una scena potentissima con lo sfondo musicale di New dawn fades dei Joy Division, scena che dà una grande carica e una ottima disposizione d'animo alla visione del film, dopo di che si arriva fino al finale attraverso una strutturazione narrativa che spesso ricalca l'accavallarsi dei ricordi e dei pensieri dei due protagonisti, con una messa in scena quindi molto "lavorata" e decisamente appagante per lo spettatore ed una storia interessante e senza cali di tensione.
In conclusione, io sono molto contento di Gomorra, ma sogno un Reprise italiano...

giovedì 17 luglio 2008

ACT OF VIOLENCE (Fred Zinnemann, 1948)


Frank è un ex-capitano dell’esercito durante la II’ Guerra Mondiale, ora apprezzato costruttore e vip di una graziosa cittadina della California, con moglie giovane e bella e figlio piccolo.
C’è però qualcosa di oscuro nel suo passato, perché un uomo è partito da New York armato di pistola e fermamente determinato ucciderlo.
All'arrivo di quest'uomo la serenità di Frank immediatamente svanisce, e il passato in cui ha tradito i suoi soldati nel campo di prigionia tedesco torna a galla, a tormentargli la coscienza e a mettere in pericolo la sua famiglia. L’uomo che lo cerca è Joe, l’unico sopravvissuto al suo tradimento.
Per scappare da Joe, Frank si sposta a Los Angeles, dove verrà comunque braccato e costretto ad un vagabondaggio notturno durante il quale, stordito dall’alcool, affiderà ad un sicario il compito di uccidere Joe. La resa dei conti finale vedrà assieme i tre uomini, e si concluderà con un gesto di redenzione da parte di Frank.
Act of violence si avvale di una buona recitazione da parte dei due protagonisti Van Heflin (Frank), Robert Ryan (Joe) e di una giovanissima Janet Leigh, ottima regia con frequenti piani sequenza, ritmo serrato e ripetute viste espressioniste (luce di traverso, soffitti bassi), per una storia che ha come tema fondamentale l’ineluttabilità del passato che ritorna per chiedere conto delle colpe commesse e mai pagate. Oltre a questo tema portante tipicamente noir ve ne sono anche numerosi altri (la caccia all'uomo, la città di notte e i suoi bassifondi, le conseguenze postbelliche nella società statunitense) che ne fanno un film molto ricco non solo dal punto di vista visivo ma anche dal punto di vista narrativo.

mercoledì 16 luglio 2008

Finalmente una bella notizia!

I consumi di carburante per autotrazione stanno calando in modo significativo e continuo.
Il calo registrato è decisamente sensibile: a giugno 2008 la benzina ha fatto -10,1% rispetto a giugno 2007, il gasolio -2,6% e il complesso del mercato italiano -6,1%. Dall'inizio dell'anno la riduzione è dell'1,5%, che detto così sembra poco, ma sono poi la bellezza di 610.000 tonnellate.
610.000 tonnellate di benzina e gasolio! Mi sembrano una quantità enormemente gigantesca, ed è solo l'1,5% di quanto si consumava...
La notizia è nel sito del Sole 24 ore, a questo link.
Questa non è certo una di quelle notizie che si trovano in grande evidenza sui giornali, perché viene automaticamente associata alla crisi dei consumi e soprattutto perché non bisogna far sapere troppo in giro che le persone in Italia stanno assumendo comportamenti di consumo sfavorevoli a quella che è l'industria italiana più potente e più sovvenzionata. Tutt'altro risalto infatti riscuotono, quando ci sono, le notizie dell'aumento nelle vendite delle automobili.
Per me però è una notizia straordinaria, perché sta scardinando una delle mie più radicate convinzioni, e cioè che mai e poi mai gli italiani avrebbero rinunciato all'automobile. Vuoi per abitudine, vuoi per malattia, vuoi per le situazioni incasinate di commuting casa-lavoro, o anche per tutte le pressioni pubblicitarie per cui l'auto è comunque e sempre il primo status-symbol occidentale. E invece il prezzo del petrolio sembra che stia per far avvenire il miracolo.
Pensate a quante cose buone ci sono dietro questa notizia. Se meno auto circolano, ci sarà meno inquinamento nelle città e attorno alle autostrade; ci sarà più sicurezza per autisti, pedoni, ciclisti e motociclisti; ci sarà più rispetto del codice della strada; ci sarà una minore occupazione del territorio da parte dei mezzi; ci sarà meno calore immesso nell'ambiente...
E poi l'altra cosa che mi viene subito in mente è il risvolto sociologico, ovvero: chi ha lasciato a casa l'auto (o magari l'ha venduta) come l'ha sostituita? Con i mezzi pubblici? Usando l'auto assieme a marito/moglie/parenti/amici e cestinando la 2'/3'/4' auto? Andando in bici, a piedi? Sono incazzati neri per questo oppure al contrario hanno scoperto che si vive bene anche senza l'auto? Hanno dovuto sopportare molti sacrifici?
Se poi di questo fenomeno se ne accorgesse anche il nostro governo ambientalista, che per adesso sta favorendo la maggiore diffusione delle pompe di benzina, tagliando i finanziamenti al trasporto pubblico (come a tutto ciò che è pubblico, ahinoi) e intempestivamente tassando le società petrolifere, proprio adesso che sono in crisi... Ma su questo lasciatemi dire che non ho alcuna speranza. L'importante però e che questo cambiamento si stia affermando e si stia manifestando a partire dal basso, è questo il modo affinché sia più radicale, diffuso e duraturo.

giovedì 10 luglio 2008

EL VIOLIN (Francisco Vargas, 2006)

Il Messico si sta affermando sulla scena cinematografica internazionale già da qualche anno. Ad aprire la strada ci hanno pensato Alejandro Gonzalez Iñarritu col grande Amores perros (prima di prendere una deriva glamour con i suoi film successivi) e anche Y tu mamá tambien di Alfonso Cuaron. Ma entrambi questi film sono in tutto e per tutto, dal punto di vista estetico e narrativo, film occidentali, mi verrebbe da dire che sono film USA con una robusta speziatura di chili.
Invece El violin ci porta in un mondo diverso, in un Messico distante anni luce dall'iconografia solita delle spiagge di Acapulco, dei cactus, dei mariachi e delle passioni calienti.
Prima di tutto per la scelta in apparenza paradossale di girare in bianco e nero... ma come, un film ambientato in Messico, un paese così colorato, viene fatto in bianco e nero? Poi le location sono anch'esse atipiche, un Messico aspro fatto di strette vallate rinserrate tra alte montagne che ricordano molti paesaggi mediterranei. E infine, ma anche questo è un elemento di grande importanza, gli attori, che sono dei veri messicani meticci o indios, molti dei quali anche non professionisti, l'esatto opposto dei sex symbol latini come Gael Garcia Bernal.
Tutti questi ingredienti sono perfettamente funzionali a comporre un'opera di grande impatto emotivo (soprattutto nei primissimi minuti, in cui assistiamo a scene di tortura strategicamente collocate all'inizio per farci immergere immediatamente nella storia), che ci racconta una storia di guerriglia antigovernativa e di repressione militare ai danni dei villaggi di montagna e delle famiglie che vi abitano. Non è chiaro se il riferimento è alla guerriglia zapatista o a fatti più lontani nel tempo, in quanto non ci sono elementi che permettano una contestualizzazione sicura, ma tutto questo non è assolutamente un difetto perché non si tratta di un film di guerra, ma di un film sui rapporti umani.
Il violino del titolo è lo strumento suonato da Plutarco, un vecchio abitante del villaggio distrutto dall'esercito che collabora con la guerriglia. Grazie anche al violino, Plutarco riesce a ottenere la simpatia del capitano dell'esercito, in un gioco di reciproche sfide e inganni reso splendidamente, con pochi dialoghi e grande senso della narrazione cinematografica. Il senso di latente pessimismo che serpeggia durante tutto lo scorrere del film trova un esito coerente nel finale, in cui il presente sconfitto affida le sue speranze alle future generazioni: forse anche una metafora di resistenza con cui il regista vuole rappresentare la condizione dei paesi in via di sviluppo.
Un'ultima nota se la merita Don Angel Tavira, l'attore che ha interpretato Plutarco. Don Angel è purtroppo morto da pochi giorni, lo scorso 30 giugno, dopo una vita passata a fare il violinista, pur con la mano destra amputata da quando era ragazzino; El violin è stato l'unico film in cui (a 81 anni) ha recitato, e con la sua straordinaria interpretazione Don Angel ha vinto il premio come miglior attore al Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard. Un altro motivo per vedere questo ottimo film.