domenica 25 novembre 2007

Gerry


Gerry di Gus Van Sant è uno dei buchi più clamorosi nella distribuzione cinematografica italiana degli ultimi 10 anni. In Italia Gerry, film del 2002, non è ancora uscito né in sala né in DVD; io ho una mia interpretazione del perché, che ora vi spiego. Gus Van Sant si presentava nel 2002 come un regista dallo stile fondamentalmente classico e comunque tranquillizzante, ed era reduce da alcuni film che avevano ottenuto un buon riscontro al botteghino, in particolare Will hunting (830.000 spettatori in Italia) e Scoprendo Forrester (719.000 spettatori). Era insomma diventato nella considerazione dei distributori un regista affidabile, anche se non propriamente un regista da blockbuster.
L'uscita di Gerry ha però spiazzato un po' tutti: è un film che Van Sant ha girato ispirandosi dichiaratamente al regista ungherese Bela Tarr, utilizzando perciò in modo esclusivo lunghi piani sequenza, dialoghi ridotti all'osso e un tempo molto dilatato. In poche parole, Gerry è un film agli antipodi dell'hollywoodianità. Le major (o almeno le filiali italiane delle major) se la sono data a gambe alla vista di un prodotto siffatto, e alla CDI, una piccola-media casa di distribuzione specializzata in trash-movies da multisala, non è parso vero di poter mettere le mani su di un film di un regista importante e con un attore in forte ascesa come Matt Damon. Ma poi evidentemente hanno visto il film, il film gli ha fatto cagare e così lo hanno tenuto congelato nel listino per circa tre anni, dopo di che lo hanno fatto sparire. Purtroppo non è servita neppure la Palma d'Oro vinta da Van Sant l'anno successivo con Elephant per garantire a Gerry una sia pur minima uscita in sala.
Questa, ripeto, è la mia interpretazione, ma ho la sensazione che si avvicini molto al vero.

Oltre al gossip mercantile, posso però dire che Gerry è un film che varrebbe invece la pena di vedere, per una serie di motivi. Intanto per un motivo puramente filologico, perché inaugura la trilogia che Van Sant ha realizzato ispirandosi a Bela Tarr (gli altri due film sono il già citato Elephant e Last days); poi perché è la testimonianza vivente della "ribellione" allo star-system di un regista affermato, che riesce nell'impresa di realizzare un film estremamente personale e indipendente; infine perché in sé è un film più che valido, che ha anzi del miracoloso in quanto pur con una trama estremamente esile (che può essere riassunta così: due amici vanno in un parco naturale per fare una scarpinata, si perdono, e cercano disperatamente di sopravvivere e trovare una via d'uscita) riesce ad appassionare e a tenere viva l'attenzione fino alla fine.
Certo, Elephant è il film migliore della trilogia perchè in esso si porta a piena realizzazione il concetto di regia che Van Sant ha adottato in questo periodo, ma Gerry è di gran lunga migliore dell'inutile Last days, film che ha goduto di tanta pubblicità per il solo fatto di essere una presunta biografia di Kurt Cobain.
L'ennesima dimostrazione di come la vendita di un film venga fatta sempre più spesso per motivi che con la qualità intrinseca dell'opera hanno poco a che fare.

mercoledì 21 novembre 2007

Gino Pugnetti - Vendetta, tremenda vendetta


Meridiano Zero, 2004

pag.32
Senta, il personale è pronto?
Il personale. Sono in due. Uno alla proiezione e uno al controllo in sala. Non li ha visti? Sono quelli che stanno imbiancando. Uno, l'operatore, è appena tornato dalla guerra, era in marina e gli hanno affondato il sommergibile, così che ogni tanto gli viene da fare degli urli, e l'altro è il cavalier Bisigato, non lo ha mai sentito? eh dài, il boxeur, il campione regionale dei massimi di prima della guerra...
Ah, quello là grosso.
Sa, questo è un cinema popolare, ogni tanto succede qualche baruffa, allora ci vuole uno coi muscoli, che con una sberla metta a posto tutti. Una volta ha mandato fuori con un spintone anche un militare tedesco ubriacato che disturbava il film con la Jean Harlow.

pag.128
Specie di sera il Casalini era sempre pieno. Di lunedì qualche volta lo affittavo a una società corale, oppure al complesso dei Ruzantini, o a un incontro di boxe, dove prima di incominciare montava sul ring per l'applauso anche il pugile a riposo cavalier Bisigato, che era sempre il custode fedele del locale. Per la prossima stagione avevo in mente di fare dei bei film, che già avevo prenotato La corona di ferro, Ventiquattro ore di guerra in URSS, Le avventure del barone di Münchhausen e il capolavoro dei Bambini ci guardano. Purtroppo il Roma città aperta me lo aveva già fregato per la prima visione il cinema Garibaldi. In più avevo affittato almeno venti film west, compreso il capolavoro dei capolavori Ombre rosse, che per l'occasione aumentavo anche il prezzo dei biglietti.
Anche il cinema-teatro Concordi, che eravamo in tre soci, andava bene. Ma là si presentava roba leggerina, specie commedie di amore, tanto la gente aspettava che terminasse il film e tutti si precipitavano nelle prime file per vedere il varietà, che di solito le compagnie le scritturava Nonantola conoscendo gli impresari di Milano e intendendosi di quel genere.

domenica 18 novembre 2007

Kongekabale


È da una dozzina di anni, dai tempi cioè del Dogma 95, che il cinema danese ci propone film molto belli artisticamente e tecnicamente e soprattutto molto morali. Fare un film morale non significa fare film da psicologia minima e banale, come ci hanno malamente abituato i cosiddetti autori italiani. Significa rappresentare temi importanti del comportamento umano e sociale, prendendo posizione rispetto al loro degrado moderno, indotto da quella che io continuo a chiamare la società catto-consumista.
In Kongekabale, come in diversi altri di questi film danesi, è la famiglia il perno della discussione morale. Famiglia che questa volta è impegolata fino al collo nella politica, il che andrebbe bene se non ci fosse un rampollo ribelle, che di professione fa il giornalista e riesce poco alla volta a scoprire tutte le schifezze fatte dal suo nobile paparino e dai suoi amici in doppio petto.
Un tema non troppo originale, certo, ma proprio per questo virtualmente eterno. La messa in scena con toni thriller, la qualità danese e la tensione morale di cui ho detto sopra però rendono questo film assolutamente da vedere.

ps: Kongekabale tradotto letteralmente vorrebbe dire "Il gioco del re", ma il suo vero significato è "un gioco difficile" o "un gioco azzardato", grazie alla mia amica Johanne per l'indicazione.

giovedì 15 novembre 2007

Gianrico Carofiglio - Ragionevoli dubbi


Sellerio, 2006

pag.200-202
Non era serata da rimanere in casa e decisi di andare al cinema. All'Esedra c'era The long goodbye di Altman, in lingua originale con sottotitoli. Ci misi venti minuti per arrivare a quel vecchio cinema, camminando veloce per strade così deserte e spazzate dal maestrale che facevano quasi paura.
Il signore dei biglietti non era contento di vedermi, e non fece niente per nasconderlo. Esitò persino qualche istante a prendere la banconota che gli avevo poggiato davanti e pensai che mi pregasse di andarmene, perché ero l'unico spettatore e dunque l'unico ostacolo alla chiusura anticipata del cinema. Poi prese i soldi, staccò il biglietto e me lo diede sgarbatamente assieme al resto.
Entrai nella sala completamente vuota. Non so se la totale assenza di stimoli sensoriali umani acuiva il mio olfatto o se il cinema aveva bisogno di una buona pulizia, ma sentii distintamente l'odore delle fodere delle poltrone e della polvere che le impregnava.
Mi sedetti, mi guardai attorno, pensai che era una situazione perfetta per un episodio di Ai confini della realtà. E in effetti per una manciata di secondi dovetti contrastare l'impulso di andare a controllare che l'uomo dei biglietti non si fosse trasformato in un crostaceo gigante antropofago e che le uscite di sicurezza non fossero diventate varchi spazio-temporali verso l'Altra Dimensione.
Poi entrò una donna. Si sedette vicino all'entrata, una decina di file dietro di me. Se volevo guardarla dovevo girarmi apposta, cosa che, se esageravo, poteva essere sconveniente. Dunque riuscii a farmene solo un'idea sommaria, prima che si spegnessero le luci e cominciasse il film.
(...)
Durante il primo tempo non seguii il film con molta attenzione, a parte il fatto che l'avevo già visto due volte. Pensavo che mi sarebbe piaciuto attaccare discorso con quella ragazza, signora, quello che era. Mi sarebbe piaciuto parlarle nell'intervallo e poi, finito il film, mi sarebbe piaciuto invitarla a bere qualcosa. Sempre che non se ne fosse andata durante il primo tempo, vinta dall'inquietudine di quella sala deserta e un po' paurosa. E dal timore che l'altro spettatore - che si era voltato un po' troppe volte a guardarla - fosse un molestatore maniaco.
Nell'intervallo lei c'era ancora. Si era tolta il poncho o lo scialle e stava lì, del tutto a suo agio, ma naturalmente io non trovai il coraggio di attaccare discorso.
Nel secondo tempo pensai che un buono spunto poteva essere la presenza del giovane Schwarzenegger nel film. Ha visto, c'era Schwarzenegger ragazzino. Roba da non credersi che adesso faccia il governatore della California. Vabbè, fa schifo, ma per una cinefila - e cazzo, una che va a vedersi da sola The long goodbye a quell'ora di notte è una cinefila - lo spunto «prime apparizioni di attori allora sconosciuti poi diventati molto famosi» non è male.
Quando le luci si accesero, mentre l'operatore troncava bruscamente i titoli di coda, mi alzai deciso. Non ero mai stato capace di abbordare una ragazza in vita mia, ma adesso ero cresciuto - per così dire - e potevo provarci. In fondo cosa poteva succederci? Nulla, che diamine.
Lei però stavolta non c'era più. Il cinema era di nuovo vuoto.
Mi affrettai verso l'uscita, pensando che si fosse alzata immediatamente prima dell'accensione delle luci. Ma per strada non c'era nessuno.

mercoledì 14 novembre 2007

Český sen


Český sen (Sogno céco) è il nome di un nuovo ipermercato che sta per sorgere alla periferia di Praga, un sogno di felicità e di consumismo al posto di un campo incolto, una promessa di ricchezza che va a riempire un terreno vuoto e inutile. La pubblicità è martellante e accattivante, i prezzi sono competitivi, i manager sono giovani e intraprendenti. C'è da fidarsi, è l'Occidente che si afferma, la modernità che finalmente arriva in questo paese che per così tanto tempo ne è stato privato. Centinaia di persone accorrono per l'inaugurazione, in una bella domenica di primavera.
Peccato che tutto questo è realmente un sogno, o forse una burla nella miglior tradizione umoristica praghese, o forse un eccezionale esperimento di psicologia sociale posto in essere da due laureandi della FAMU, la celebre scuola di cinema di Praga. Le persone che con una velocità e una fame di gloria degne del miglior Pietro Mennea divorano di corsa lo spazio che le separa dall'ipermercato scopriranno che non si tratta altro che di un telone attaccato ad un'impalcatura.
Noi spettatori del film questo lo sappiamo fin dall'inizio, perché accompagniamo i due impavidi autori nella messinscena del sogno, ma fino alla fine rimaniamo increduli di fronte alla facilità con cui le persone possono essere buggerate dalle promesse del capitalismo. E arriviamo a pensare pure a tutte le volte in cui anche noi siamo già stati in ugual modo buggerati.

martedì 13 novembre 2007

Orhan Pamuk - La casa del silenzio


Sessiz ev, 1996
Einaudi, 2007

pag.13
Ho imboccato la via dove c'è il cinema, ora sento la musica, quella che suonano prima della proiezione. C'è sempre una bella illuminazione, qui. Guardo i manifesti:
Appuntamento in paradiso. È un vecchio film. Su una foto, si vede Ediz Hun che abbraccia Hülya Koçyiğit. E poi ecco Ediz in prigione. E poi si vede Hülya che canta, ma nessuno potrebbe indovinare, senza aver visto il film, la successione degli eventi. Forse è per questo che si affiggono i manifesti all'esterno: per suscitare la curiosità dei passanti. Vado al botteghino: un biglietto, per favore. La cassiera me lo tende. Grazie. Le chiedo se il film è bello. Non lo ha visto. A volte mi prende così: una voglia improvvisa di parlare. Vado a sedermi. Aspetto. Di lì a poco il film comincia.
(...)
Si accendono le luci, usciamo, tutti parlano del film. Piacerebbe anche a me conversare con qualcuno. sono le undici e dieci. La signora mi starà aspettando, ma non ho voglia di tornare a casa.

lunedì 12 novembre 2007

Tony Takitani

Questo è uno dei gioielli della bellissima edizione 2004 del Festival di Locarno. Il film era nella selezione ufficiale, non ricevette il Pardo d'Oro ma ci andò molto vicino, vincendo il Premio Speciale della Giuria.
Credo che sia uno dei film più raffinati che abbia mai visto. Per darvene un'idea sommaria, vi descrivo tre elementi del cast: il regista Ichikawa Jun è considerato come l'ultimo maestro del cinema giapponese a (non) essere stato scoperto in Europa; la sceneggiatura è tratta da un racconto di Murakami Haruki e le musiche sono di Sakamoto Ryuichi, questi due almeno li conosciamo.
È un film malinconico, dal respiro lento come quello dei nostri pensieri, con l'attenzione rivolta a quei piccoli gesti apparentemente semplici che però riempiono di significato la nostra esistenza. E possiede una singolare somiglianza con uno dei capolavori di Alfred Hitchcock, quello in cui l'ex poliziotto Scottie Ferguson cerca di ricreare la donna che ha amato e che crede morta... Vertigo, anche questo lo conosciamo. E così come per Vertigo, chi vedrà Tony Takitani non se lo dimenticherà.