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martedì 11 agosto 2009

LE FAR WEST - Jacques Brel (1973)

Sarebbe veramente troppo facile sparare a zero su Le Far West, il secondo e ultimo film scritto e diretto e ovviamente interpretato da Jacques Brel.

Le Far West è l'episodio che ha messo fine alla carriera cinematografica di Brel, ed è quasi riuscito a mettere fine alla sua carriera artistica tout-court, se non fosse che l'irrefrenabile desiderio di esprimersi lo ha portato a registrare nel 1977 il suo ultimo omonimo album.

Le ragioni di questo allontanamento stanno nell'ostilità con cui sia pubblico che critica hanno accolto il film, che peraltro portava con sé un livello di attesa piuttosto alto, dopo il suo inserimento nella selezione ufficiale del Festival di Cannes del 1973 e l'ottimo esordio alla regia nel 1972 con Franz.

Si sa che più alta è l'attesa verso un film, più cocente è la delusione quando la sua accoglienza è negativa, ma a parte questo Le Far West presenta effettivamente una serie di errori e di incomprensioni che da un lato in parte giustificano il trattamento ricevuto, dall'altro ne hanno reso un oggetto misterioso e da tutti dimenticato su cui vale la pena tornare a riflettere.

Io credo che Jacques Brel avesse un talento potenziale anche per la regia e la recitazione; non certo al livello inarrivabile di cantante, poeta e performer mostrato durante la sua carriera musicale, ma probabilmente un talento superiore alla media. Il problema è stato che nel cinema Brel non ha trovato i Rauber e Jouannest che, incontrati alla fine degli anni '50, gli hanno fatto spiccare il volo nel mondo della chanson. Detto in altri termini, Brel aveva secondo me bisogno, sia come sceneggiatore che come regista (e anche come attore) di un partner più esperto o semplicemente più severo che ne disciplinasse e controllasse l'immensa capacità creativa. Mancando questo, viene a mancare (come appunto in Le Far West) la capacità di trovare un linguaggio e una misura del gesto registico e interpretativo necessari per comunicare al meglio il senso del racconto.

Troviamo così in Le Far West innanzitutto un grosso errore 'tattico' di scrittura: il film inizia con i personaggi già perfettamente delineati, e tali personaggi (mi riferisco ai 3 protagonisti; Jack, Gabriel e Lina) non cambieranno di una virgola durante tutto il film; questo fa sì che venga a mancare totalmente l'effetto di sorpresa o di attenzione verso la trama, perché e chiaro fin da subito che ci troviamo di fronte a personaggi donchisciotteschi che porteranno avanti testardamente la loro missione senza cambiare il mondo e senza venirne cambiati. Credo che almeno un accenno all'esistenza anteriore dei protagonisti, un loro anche minimo dettaglio psicologico, avrebbe giovato molto all'interesse del pubblico. A peggiorare le cose è la costruzione frammentata della trama, nel senso che la storia, già di per sé molto esile, prosegue solo a forza di episodi, ognuno solo debolmente legato agli altri e presentato in sequenza, quasi come fossero canzoni che compongono un album. Non è un caso che a mio avviso sia il finale la parte migliore del film, quando finalmente gli episodi si intrecciano e vanno avanti in parallelo usando un linguaggio cinematografico adeguato dato dall'uso del montaggio alternato. Per finire, non migliora la situazione lo stile abbondantemente in uso nel cinema medio degli anni '70, che oggi in molte situazioni appare piuttosto stucchevole e ridondante.

Ciò detto, non posso però limitarmi a un cahier de doléances, perché da conoscitore e appassionato di Brel non posso non scorgere gli elementi di interesse di questo film. Intanto, chi conosce bene Brel trova disseminati lungo il film alcuni degli elementi caratterizzanti la sua opera artistica e la sua vita personale: dalla ripetuta citazione di Don Chisciotte a certe battute sul Belgio che solo Brel poteva permettersi, per finire con le numerose riprese fatte dall'aereo, che in quegli anni era il suo passatempo preferito, così frequentato che doveva avergli evidentemente 'imposto' di usare con abbondanza il particolare punto di vista aereo per le riprese. Da questo si deduce tra l'altro che il film è sicuramente costato parecchi soldi (ci sono anche delle demolizioni di edifici non piccoli appositamente realizzate) e quindi che il suo fallimento non è stato solo artistico ma anche commerciale.

Ma il riferimento più importante e più ovvio è quello relativo al discorso sull'infanzia. L'infanzia è stato uno dei temi delle canzoni di Brel, non quello che ha più frequentato ma senz'altro uno di quelli che ne hanno maggiormente marcato la distanza di qualità poetica nei confronti della generalità degli altri cantautori. In Le Far West i personaggi sono tutti adulti, alcuni addirittura anziani, ma lo sono solo anagraficamente, perché le cose che fanno e che dicono li caratterizzano come bambini, o come adulti non cresciuti; si aggregano tra di loro semplicemente per simpatia e vanno alla ricerca del loro Far West e dell'oro in esso nascosto proprio come un gruppo di bambini (di quelli di qualche decennio fa, certo!) andava all'avventura negli squarci di terreno incolto ai bordi delle città o all'interno dei palazzi in costruzione.

Le Far West è quindi interamente costruito sul concetto tipicamente breliano che l'infanzia è il periodo della vita in cui gli individui si formano il proprio immaginario, i propri sogni e obiettivi di vita ma che una volta arrivati all'età adulta tutto ciò dovrà essere messo nel cassetto e chiuso a chiave perché non potrà in alcun modo far parte della vita delle persone adulte. Contro questo concetto Brel furiosamente combatteva scrivendo i suoi testi e con le dichiarazioni rilasciate nelle interviste. Quello che per tutti si può considerare come la normalizzazione dell'età adulta, per Brel invece è la perdita della sincerità, del sogno, della purezza infantile, della capacità di stare assieme agli altri, e bisogna quindi che apra gli occhi e si dia da fare per cercare di riconquistare la propria essenza perduta.

Se non si comprende e non si accetta questo pensiero è impossibile anche minimamente apprezzare un film come Le Far West. Ed è proprio qui il punto: come può un pubblico di adulti come siamo praticamente tutti noi, che sopravviviamo avendo archiviato i nostri sogni, immedesimarsi nei personaggi del film o anche semplicemente assecondarne i dialoghi e le azioni? È questa la grande sfida - clamorosamente perduta - posta da Jacques Brel in questo film: convincere le persone che col passare degli anni hanno dimenticato l'innocenza e la purezza dell'infanzia, almeno per gli 85 minuti di durata di Le Far West, a tornare a pensare come un bambino, agire come un bambino, avere la stessa capacità di stupirsi, di indignarsi e di creare sogni che solo un bambino può avere.

Questi sono concetti che Jacques Brel riusciva splendidamente a trasmettere nei tre minuti di tempo di una canzone, con la sua voce e presenza scenica e con il solo aiuto dei musicisti di supporto. La realizzazione di un film, e soprattutto la creazione di un linguaggio cinematografico che sia in grado di realizzare l'ambizione di Brel, ovvero rappresentare i concetti e i pensieri più che le azioni, sono però opera molto più complessa che non può poggiare sulle spalle di un uomo solo. Quindi Le Far West è, e temo sarà sempre di più, un film destinato al circolo ristretto di sognatori irrecuperabili e di incondizionati appassionati di Jacques Brel.

domenica 19 luglio 2009

LES LIENS DE SANG - Jacques Maillot (2008)

Sarà perché la generazione (o meglio la coorte, se vogliamo usare il termine demografico corretto) che è più attiva in questi anni è quella che allora viveva i suoi anni giovanili e infantili, sarà perché stiamo arrivando alla giusta distanza per avere uno sguardo distaccato, o anche perché molti dei protagonisti di allora non sono più in vita, fatto sta che è cresciuto molto l'interesse verso gli anni '70, nel cinema e nella società, in Italia così come un po' in tutto il mondo.

Io fortunatamente mi inserisco nella prima delle tre motivazioni succitate, e sarà certamente per quello che, da un po' di tempo a questa parte, quando mi trovo a guardare un film girato o ambientato negli anni '70 vengo rapito da un bel sentimento di malinconia. Di malinconia e di tenerezza, facilmente stimolate dal ricordo dei vestiti, delle acconciature, delle automobili, dei cibi, degli ambienti, tutte cose che viste al giorno d'oggi appaiono così artigianali e quindi così umane in confronto alla digitalizzazione e alla standardizzazione imperante oggidì.

Per parlare degli anni '70 ci vorrebbe un libro intero, altro che un post, e in fondo io vorrei parlare solo di un film; mi limiterò a concludere il preambolo affermando che negli anni '70 c'è stato molto più di buono di quanto ci è sempre stato raccontato dagli anni '80 a oggi.

Certo, perché l'immagine che si è data dai media agli anni '70 è quella degli anni di piombo, che hanno certamente molto pesato in Italia e in Germania. In Francia non si sono verificati a mia memoria grandi episodi di terrorismo, ma evidentemente c'erano casi di criminalità comune molto aggressiva e violenta che sono rimasti impressi nell'immaginario collettivo. Suppongo quindi che sia per questo che a breve distanza dal film in due parti dedicato al bandito Mesrine è uscito anche questo, decisamente migliore, film dedicato a un altro incorreggibile bandito dalla pistola facile e senza paura di poliziotti e bande rivali.

In Italia questo film non è arrivato, perché la qualità è ormai il secondo (quando va bene) criterio di scelta dei distributori: Mesrine aveva come protagonista Vincent Cassel (che in Italia è non tanto un buonissimo attore quanto piuttosto il marito della Bellucci), lo hanno anche mandato a Sanremo a pubblicizzare il film, ma tutto questo non è servito ad abbindolare il pubblico, che dopo il primo weekend ha disertato le sale che lo programmavano (e quindi ovviamente il secondo episodio ha avuto incassi miserrimi).

Qual è la differenza tra questi due film? Mesrine è solamente un'americanata, un action movie senza passione alcuna: solo sparatorie, scopate e scazzottate che annoiano mortalmente già dopo 10 minuti. Les liens de sang contiene sparatorie, scopate e scazzottate ma è pieno anche di sentimento e di nostalgia verso quel periodo così ricco di fascino. E poi la trama è molto più articolata, potendo giocare con una certa astuzia sul rapporto tra fratello bandito e fratello poliziotto, ripresentando in maniera non pedissequa il tema dell'attrazione latente reciproca tra guardie e ladri (e, meno latente, verso le compagne di guardie e ladri) tanto caro anche al grande James Ellroy.

Non so se i personaggi narrati dal film siano come Mesrine realmente esistiti, né ho verificato se il regista Jacques Maillot sia un mio coetaneo con affinità di sentimenti verso gli anni '70, sono fatti che non cambierebbero il mio giudizio del film, che vive benissimo di vita propria anche senza queste informazioni. Soprattutto non sarebbero in grado di placare la mia nostalgia verso quegli anni perduti e la mia ammirazione verso paesi come la Francia che ci battono alla grande nel cinema e non solo in quello.

domenica 19 aprile 2009

NIWEMANG - Bahman Ghobadi (2006)

Niwemang è un film pieno di "mescolanze", di intersezioni e sovrapposizioni, ed è anche un film molto mobile, in senso fisico e metaforico.
Vedo di spiegare meglio questo incipit molto criptico. Le "mescolanze" sono davvero tante: innanzitutto a livello produttivo, visto che il film ha una nazionalità estremamente composita, essendo una coproduzione austro-francese-iraniana-irachena, una di quelle ormai comuni operazioni necessarie per permettere la realizzazione di film in paesi che non dispongono di grandi risorse economiche per il cinema e poi soprattutto per dischiudere a questi film una circolazione commerciale nei paesi più importanti (tra i quali ovviamente non c'è l'Italia, in cui Niwemang non è uscito se non alla Festa del Cinema di Roma). A volte queste operazioni produttive danno luogo a film molto standardizzati, pensati appositamente per i festival e per il pubblico d'essai, ma io credo sinceramente che appartenesse più a questo filone un precedente film di Ghobadi che infatti in Italia a suo tempo uscì nelle sale, Il tempo dei cavalli ubriachi.

Niwemang mi sembra molto più originale, meno "etnico" e più moderno, proprio per via di tutte le mescolanze di cui non ho ancora realmente parlato. La più rilevante di esse mi sembra quella che testimonia della condizione di crossover storico e geografico in cui viene collocata la storia: una incredibile, allungatissima genìa di musicisti che viene raccolta dal vecchio Mamo, musicista lui stesso e genitore di tutta la troupe viaggiante su un attrezzatissimo pullman che cercherà di portarli dal Kurdistan iraniano al Kurdistan iracheno, per tenere il primo concerto dopo la fine della guerra e riportare quindi un po' di normalità in quella terra martoriata.
Essendo così "allungata", la famiglia si compone di persone di età molto differenti, dal giovane adulto con pc portatile e collegamento wireless a internet al figlio più anziano che da buon artigiano liutaio vorrebbe starsene in pace nel suo magnifico laboratorio. La famiglia è così un microcosmo di mentalità e atteggiamenti diversi che testimoniano della vorticosa irruzione della modernità nei paesi del Vicino Oriente e della sua mescolanza con la ricca tradizione ancora viva.

Forse anche per assecondare queste diversità, pure il film ha uno stile tutt'altro che lineare, passando di volta in volta da toni di commedia a toni drammatici, alternando anche momenti sospesi di grande realismo ad altri in cui si impongono scelte più rivolte alla rappresentazione del surreale e del sogno. In particolare, trovo molto bergmaniana e decisamente ben fatta la rivelazione che questo viaggio così complesso, irto di ostacoli e di imprevisti, declinerà progressivamente verso la consapevolezza che per Mamo si tratterà del viaggio verso la sua morte. Non solo quindi c'è lo spostamento fisico del gruppo nei quattro paesi in cui è spezzata la terra dei Kurdi (Iran, Azerbaigian, Turchia e Iraq), ma anche l'avvicinamento del capofamiglia, il grande vecchio portatore della tradizione e da tutti conosciuto e rispettato, alla fine dei suoi giorni, come metafora del rischio della scomparsa della tradizione e cultura kurde, minacciate dalla divisione politica e dall'arrivo della modernità.

Forse dalla mia descrizione Niwemang può sembrare un film complesso e pesante; in realtà si tratta di un film, sia pur ricchissimo di temi, dotato di grande freschezza e quindi molto, molto appagante per chi è curioso di vedere luoghi, storie e personaggi diversi dai soliti. Peccato che, essendosi esaurita quella piccola moda del cinema iraniano di Kiarostami e Makhmalbaf, gli acuti distributori italiani abbiano pensato che non valesse la pena di farcelo vedere.

lunedì 12 gennaio 2009

GREAT WORLD OF SOUND - Craig Zobel (2007)

La Great World of Sound è una piccola casa discografica che cerca in giro per gli States nuovi talenti da lanciare sul mercato. Il suo boss, Shank, può vantare alcune grandi scoperte fatte nel recente passato, testimoniate da una bella collezione di dischi d'oro. Tutto questo, assieme a poche ma chiare strategie di vendita, viene insegnato agli aspiranti talent-scout che faranno capo alla nuova sede distaccata di Charlotte, North Carolina. Tra gli aspiranti talent-scout ci sono Martin, bianco magro biondo calmo e garbato, e Clarence, nero robusto irruento incontenibilmente simpatico, che faranno coppia fissa per valutare le audizioni delle aspiranti star che risponderanno agli annunci della Great World of Sound. Ben presto però Martin e Clarence scoprono che la GWS non è altro che una meschina truffa, sia nei confronti degli aspiranti cantanti a cui viene richiesto di sborsare 3.000 dollari per la promessa di incidere un disco, sia per loro due, che vedranno ben pochi soldi rispetto a quelli favoleggiati da Shank.
Raccontato così, Great World of Sound sembra essere un film deprimente o di quelli che fanno indignare per una delle solite truffe ai danni dei più ingenui e ottimisti. Invece, pur non mancando questi due aspetti, io l'ho trovato soprattutto delicato e (uso un'allocuzione religiosa e questo un po' mi preoccupa), pieno di grazia. Perché i nostri due eroi non sono completamente ingenui, hanno capito subito il lato truffaldino della loro attività, ma ciò nonostante sono dotati (soprattutto Martin) di un ottimismo e di una convinzione di fondo con i quali cercano onestamente di fare qualcosa di buono per le aspiranti stars, salvo poi mandare tutto a monte quando la situazione diventa insostenibile.
La storia deriva da un'esperienza vera del regista, il cui padre negli anni '70 faceva esattamente il mestiere di Martin e Clarence. Ci dice Zobel di essere ancora stupito che suo padre, che era una brava persona, potesse per professione truffare gli altri sulla loro speranza.
Ma la tenerezza del film deriva soprattutto da una grande trovata di messa in scena: le audizioni che vediamo nel film non sono fatte da attori scelti dal casting, bensì da veri aspiranti cantanti che hanno risposto a finti annunci pubblicati sui giornali. Le scene sono state riprese da video camere nascoste, per cui l'atteggiamento di queste persone è quanto mai naturale, le loro doti artistiche vere o presunte sono quelle loro reali, e le reazioni dei due attori sono spontanee - così come le reazioni di fronte alla richiesta dei 3.000 dollari!
Alla fine di ogni ripresa, la troupe ha raccontato la verità a questi cantanti, che hanno quasi tutti firmato la liberatoria per l'utilizzo nel film delle immagini in cui essi compaiono.
Abbiamo così un film che è sia fiction che documentario e che è soprattutto la dimostrazione di come le buone idee di sceneggiatura e di regia non siano ancora esaurite. Il più è scoprirle: ci sono quelli che dovrebbero fare gli scout di mestiere ma non le vedono mai...

domenica 4 gennaio 2009

LADRÓN QUE ROBA A LADRÓN (Joe Menendez, 2005)

Come spesso succede, è quando ti avvicini a un film senza avere grandi aspettative che scopri delle piacevoli sorprese. Questo è stato per me il caso di Ladrón que roba a ladrón, che sospettavo veramente potesse essere una gran boiata. In verità i primi minuti di film mi stavano confermando questo sospetto: attori bellocci e palestrati, messa in scena senza pretese e fotografia molto piatta stavano facendomi pensare a un sotto-sottoprodotto hollywoodiano. Però poi strada facendo il film migliora molto, e alla fine mi ha lasciato piacevolmente spensierato, con un lieve retrogusto di satira sociale.
Si tratta infatti di un tipico heist-movie (alla Colpo grosso oppure Ocean's 11-12-13, per intenderci), costellato di tutti gli inconvenienti e le sorprese che devono spuntare in un film di questo genere, con la differenza sostanziale che il colpo è architettato e realizzato da un gruppo di latinos residenti in California ai danni di un altro latino ex-collega di furti che si sta facendo montagne di soldi truffando i poveracci, ancora soprattutto latinos, con la pubblicità e la vendita televisiva di presunti farmaci e prodotti curativi. Una specie di Robin Hood latini quindi, con un fondo di semplice moralismo ma anche con una buona e giusta dose di presa in giro della stupidità yankee e del sistema di marketing basato sui media.
Al di là di analisi socio-politiche che in questo caso sono forse eccessive, visto la caratteristica di puro entertainment del film, è comunque interessante osservare che inizia a esistere una produzione statunitense di film prodotti e realizzati da cast e attori di provenienza latina, e destinati in prima battuta al pubblico di lingua ispanica. Non a caso infatti il simpatico gruppo di ladroni è composto d un mélange di nazionalità (argentini, cubani, colombiani, messicani), che ci dà l'immagine di quanto sia variegato il fenomeno dell'immigrazione latina negli USA e come, furbescamente, il film strizzi l'occhio proprio a loro. Ma dopo tante ditate negli occhi da parte delle potenti major di Hollywood, questa è una trovata che si può perdonare volentieri.

sabato 13 dicembre 2008

MR.UNTOUCHABLE (Marc Levin, 2007)

Un altro pezzo della ricchissima storia criminale degli Stati Uniti, argomento che da sempre è di cassetta per la produzione di racconti, romanzi, fumetti e film. Si tratta perlopiù, come in questo caso, di aspettare quella ventina d'anni affinché alcuni dei protagonisti possano uscire di carcere e raccontare in prima persona la loro storia, ovvero la costituzione, l'ascesa e la caduta di un gruppo di trafficanti di droga nella New York degli anni '70 e '80'. Un gruppo di uomini di colore - il primo importante gruppo di trafficanti di colore - che, capeggiato da Leroy "Nicky" Barnes (il Mr. Untouchable del titolo) divenne talmente potente da essere rispettato anche dalla mafia italo-americana.
Oltre che molto raccontato nella fiction, anche nello specifico del documentario la biografia dei criminali sta diventando una sorta di sottogenere, dato che esistono altri film (penso ad esempio a Cocaine cowboys) che molto recentemente hanno trattato lo stesso argomento.
Per questo motivo, non si può dire che Mr.Untouchable sia un film molto originale; i suoi pregi vanno perciò ricercati altrove, in particolare nella costruzione molto sciolta, che alterna con bel ritmo le immagini d'epoca con le testimonianze odierne, e nella colonna sonora ottimamente scelta tra la vasta produzione di black music degli anni '70. Del resto, per un documentario è ormai un sinonimo di qualità vedere la presenza tra i produttori di Alex Gibney (Enron, Taxi to the dark side, No end in sight sono alcuni dei film che ha diretto o prodotto).

domenica 9 novembre 2008

OR (Keren Yedaya, 2004)

Or non sta in questo caso a significare oro, ma è il nome della diciottenne protagonista di questo film israeliano, vincitore al festival di Cannes 2004 della Caméra d'Or (qui invece sì che Or vuole dire oro!) per il miglior film di regista esordiente.
Nel 2004 il cinema israeliano non si era ancora imposto all'attenzione internazionale, perciò Or può essere considerato come un apripista di film successivi quali Meduse, La banda e Waltz with Bashir, grazie ai quali oggi Israele è una nazione di punta dal punto di vista cinematografico. Con i primi due almeno di questi film (anche perché Waltz with Bashir non l'ho ancora visto), Or condivide la forte immersione della sua trama nella realtà sociale israeliana, ma si differenzia per la sua intensa drammaticità, ottimamente sostenuta dalla essenzialità delle ambientazioni e dei dialoghi estremamente realistici, in cui sono del tutto assenti inutili giri di parole.
Un film come Or probabilmente può piacere molto a David Cronenberg, anche se apparentemente si situa a miglia di distanza dalle sue opere: ma in realtà, così come in A history of violence, in Or è presente la rappresentazione della sconfitta dell'adattamento sociale e culturale ad opera di una sorta di fattore genetico, ereditato per via familiare. Se in A history of violence si tratta della riscoperta dell'anima nera di assassino nel padre e che esce dallo stato di latenza nel figlio, in Or la omonima protagonista abbandona tutti i suoi sforzi di redenzione sociale e assume la decisione cosciente dior intraprendere lo stesso disperato destino della madre. Bisogna poi segnalare il fatto che Or è un film interamente al femminile, non solo perché ha due ottime e coraggiose attrici protagoniste, ma anche per la regista e sceneggiatrice Keren Yedaya; francamente non è molto usuale vedere film così tosti realizzati da donne... almeno per noi italiani che abbiamo L'uomo che ama o Bianco e nero...
Sicuramente, Or è uno di quei film che rimarrà per un po' nella testa di chi l'ha visto.

martedì 21 ottobre 2008

JESUS CAMP (Heidi Ewing e Rachel Gray, 2006)

Avrei voluto scrivere un lungo articolo su questo eccellente film, ma Valido ha già scritto un post perfetto, che dice esattamente quello che penso (tranne che per l'hard rock, che non sopporto) e quindi onore al merito.


Nel film, ci sono solo due momenti in cui mi sono trovato solidale con le fanatiche: la preghiera affinché Power Point non si imballi e il disprezzo verso Britney Spears. Per il resto del tempo sono stato percorso da brividi incontrollabili.
Voglio però solo aggiungere che si trovano in rete dei sottotitoli tradotti in italiano nei quali sono stati aggiunti all'inizio del film dei commenti critici verso il lavoro delle due registe e, sparsi lungo tutto il film, degli estratti di brani della Bibbia che darebbero la spiegazione ai comportamenti dei fanatici che si vedono nel film. Da un punto di vista cinematografico, questo diventa un vero spettacolo nello spettacolo. Dal punto di vista filosofico-religioso, questi commenti non servono a smuovere di un millimetro la posizione di chi non la pensa come questi fanatici. Dal punto di vista etico, è la riprova della loro intolleranza e invadenza.

domenica 28 settembre 2008

L'EMMERDEUR (Édouard Molinaro, 1973)

Tra le tante cose belle che ricordo degli anni '70 ci sono certamente anche le commedie francesi, perfino quegli sciagurati de I Cinque Matti (Les Charlots) mi tornano in mente con affetto. Tra le vette più alte del genere e del periodo c'è sicuramente L'emmerdeur, che voglio qui ricordare per la sua evidente connessione con Jacques Brel.
L'emmerdeur è stato l'ultimo film interpretato da Jacques Brel nella sua purtroppo breve carriera cinematografica (se escludiamo la sua apparizione per cantare Ne me quitte pas nel film-musical Jacques Brel is alive and well and living in Paris del 1976, in cui peraltro la sua aura è straordinariamente presente); carriera costituita da una dozzina di film - di cui 2 da lui diretti - alcuni dei quali trascurabili, altri invece assolutamente degni di nota anche grazie all'interpretazione di Brel. Che, come si poteva immaginare conoscendo il suo stile di cantante, si trovava perfettamente a suo agio nelle commedie e nei film di azione/avventura, generi nei quali poteva scatenare tutta la sua mobilità espressiva e corporea; non è un caso che infatti abbia interpretato ruoli decisamente anarchici in film come La bande à Bonnot e Mon oncle Benjamin. Inoltre non va dimenticato che Brel poteva disporre di uno strumento recitativo come la sua voce, con tutta la sua gamma di intonazioni e sfumature, decisamente hors-catégorie per gran parte dei comuni attori di cinema. Ne L'emmerdeur, Brel è il rompiballe che dà il titolo al film, e rende la vita gramissima al sicario Lino Ventura/M.Milan, che sarà impedito a compiere la sua missione a causa dell'incontenibile invasività di Brel/Pignon, suo vicino di stanza d'albergo in preda a crisi suicida-depressiva causata dall'infedeltà della moglie.
Anche se oggi in Italia questo film è piuttosto dimenticato (non esiste ancora la versione in dvd, pur essendo una coproduzione Francia/Italia), bisogna riconoscere che è diventato una sorta di standard; sia perché è il primo episodio della cosiddetta "saga" di Pignon, il personaggio in apparenza ingenuo creato da Francis Veber (sceneggiatore di L'emmerdeur) che poi ritroveremo in Il vizietto, La cena dei cretini e L'apparenza inganna, sia perché è un mirabile esempio di commedia "a valanga", in cui gli avvenimenti precipitano in modo sempre più frenetico via via che la storia avanza, coinvolgendo sempre nuovi personaggi e ciò nonostante mantenendo un ritmo e una struttura perfettamente controllati. E che il film fosse da prendere ad esempio di commedia ben riuscita, lo dimostra anche il fatto che niente meno che Billy Wilder ne ha fatto il remake hollywoodiano (Buddy Buddy, quello che resterà il suo ultimo film), con Jack Lemmon e Walter Matthau nei ruoli rispettivamente di Jacques Brel e Lino Ventura.
A giovare al film c'è sicuramente la grande intesa tra gli attori e tra di essi e il regista. Del resto, Molinaro aveva diretto Ventura già nel 1959 nel bel noir Un témoin dans la ville e Brel nel già citato Mon oncle Benjamin; Ventura e Brel si erano conosciuti un anno prima, sul set di L'aventure c'est l'aventure, e da allora erano diventati grandi amici anche nella vita. Due amici di cui oggi si sente tantissimo la mancanza.

venerdì 19 settembre 2008

STANDARD OPERATING PROCEDURE (Errol Morris, 2008)


Chi conosce a sufficienza il mondo del film documentario, sa che nel suddetto ambito Errol Morris è uno dei più importanti autori degli ultimi venti anni, e pertanto la visione di un suo nuovo film - le cui uscite sono peraltro sempre piuttosto distanziate nel tempo - porta con sé un notevole carico di attese.
Forse è anche per questo che Standard operating procedure, l'ultimo film di Morris visto ieri sera al Lumière, mi ha piuttosto deluso, ma gli elementi oggettivi di insoddisfazione sono in realtà diversi e significativi.
Il film ci offre la descrizione a distanza di qualche anno di uno degli eventi più cupi e barbari derivati dalla guerra in Iraq, ovvero le torture e le umiliazioni patite dai prigionieri iracheni nel famigerato carcere di Abu Ghraib. Il punto forte del film è indubbiamente la presenza in volto e in voce di gran parte dei soldati americani che si sono resi responsabili delle torture; intervistati da Morris, questi soldati ci raccontano cosa hanno fatto e provano a spiegare come vivono oggi questa loro 'esperienza'. A corredo di queste narrazioni ci sono anche numerose foto scattate nel carcere aventi come soggetto i prigionieri seviziati e i soldati sghignazzanti mentre si divertono nel loro ruolo di aguzzini.
Beh, l'argomento è sicuramente conosciuto e degno di essere raccontato anche se alquanto deprimente, essendo la riprova ennesima della miseria morale che può essere raggiunta dall'uomo in determinate situazioni. Il problema del film però è innanzitutto che il racconto è tutto lì, sembra incaponirsi nel ripetere svariati "aneddoti" delle torture sottoposte a diverse persone, senza allargare più di tanto il campo di indagine al contesto e al background di questi soldati. Che si vede subito non sono altro che dei mentecatti debosciati, che se non fossero capitati in Iraq si sarebbero probabilmente segnalati per atti di sodomia su animali domestici in un qualche paesino del Midwest. La cosa forse più orripilante, a mente fredda, è vedere come ancora oggi il ricordo di quelle sevizie non susciti particolari pentimenti o rimorsi nei soldati intervistati, che sentono con maggiore urgenza il bisogno di rinfacciare di essersi lasciati coinvolgere o ingannare dai loro commilitoni.
Dal punto di vista più stilistico, trovo assai sgradevole che il film sia riempito di ricostruzioni in studio, oltretutto spesso in ralenti, che non aggiungono assolutamente nulla, né in termini di pathos né in termini puramente estetici; così come non ho apprezzato le musiche di Danny Elfman (il musicista dei film di Tim Burton), eccessive e inadeguate; le stesse interviste hanno subito un pesante editing, cosa che trasmette a volte una sensazione di artificiosità. Per concludere il cahier des doleances, è decisamente insopportabile l'ingombrante presenza del marchio Sony, che da produttrice del film ha fatto un uso veramente eccessivo del product placement. In certi momenti si ha addirittura la sensazione che la origine vera del film sia proprio lì... anche perché si tratta di una produzione decisamente ricca per un film documentario.
Spero che per Errol Morris si sia trattato solo di uno scivolone passeggero, per adesso il film migliore sull'Iraq rimane ancora No end in sight.

sabato 23 agosto 2008

AIR GUITAR NATION (Alexandra Lipsitz, 2006)


Tra le tante strampalate competizioni "olimpiche", organizzate allo scopo principale di divertirsi e destinate a partecipanti assolutamente non professionisti, c'è anche il torneo di air guitar, ovvero un'esibizione di imitazione di una figura tra le più carismatiche della cultura pop: il chitarrista rock alle prese con un assolo che naturalmente deve essere virtuosistico e orgasmatico.
L'idea di questa competizione è venuta una decina di anni fa ad alcuni giovani di Oulu, una città nel nord della Finlandia, e da allora ogni estate in quell'angolo del Nord Europa si tiene il campionato mondiale di air guitar, nel quale si misurano personaggi provenienti da diversi paesi del mondo.
La filosofia sottostante l'idea iniziale era non solo di puro divertimento ma anche, per così dire, una filosofia egualitaria: ovvero anche chi non ha talento musicale o non ha mezzi per comprarsi una chitarra, imparare a suonarla e suonare in un gruppo, può comunque diventare un campione di air guitar. Tutto questo è stato vero finché non sono arrivati gli americani che, come ho già detto a proposito di The King of Kong, prendono ogni cosa terribilmente sul serio, e se gareggiano in una competizione non è mai per divertirsi ma solo per vincere, anzi per schiantare gli avversari ("I'll crash him", dirà testualmente uno dei due concorrenti statunitensi).
Succede così che nel 2002 due giovani newyorchesi scoprono l'esistenza di questo campionato al quale - scandalo! - non hanno mai partecipato concorrenti americani, e quindi si danno da fare per organizzare le selezioni americane (suddivise in selezione East Coast e selezione West Coast) allo scopo di trovare il campione che vada a vincere i mondiali del 2003. E così sarà, come vediamo in questo film.
Come molti documentari americani, questo film ha il difetto di volere costringere il suo soggetto in un rigido plot con inizio-svolgimento-fine tipico da scuola di scrittura che lascia sempre un lieve retrogusto di artefatto, decisamente contrario allo spirito dei "film del reale".
Ma ciò nonostante il film è divertente, grazie alla personalità e alla bizzarria dei contendenti, che rappresentano l'intero campo di variazione degli atteggiamenti e degli abbigliamenti del mondo del rock (per qualche breve fotogramma si vede anche uno che si esibisce interamente nudo, e il manico della sua chitarra immaginaria è il suo zizi, un po' floscio a dire la verità). Verso di loro viene naturale provare una grande simpatia, perché non ho dubbi che qualunque appassionato di rock, a partire dal sottoscritto, abbia praticato, anche solo nel riparo nella sua camera, un bel po' di intense sessioni di air guitar. Peccato solo che prima o poi arrivano sempre quei guastafeste degli americani...

sabato 26 luglio 2008

REPRISE (Joachim Trier, 2006)

Quando è finito Reprise sul mio lettore dvd, la prima cosa che ho pensato è stata: ma perché in Italia non ne facciamo di film così? Indipendentemente dalla sua riuscita - Reprise è un film buonissimo ma certo non epocale - ci sono tipologie di film che in Italia proprio non vengono forse neanche prese in considerazione. Il cinema italiano è in un buon momento di salute già da diversi anni, ma fondamentalmente sono sempre due i film che vengono fatti: le commedie di costume e i film drammatici (intimisti, psicologici o sociologici), comunque sempre o quasi sempre opere legate strettamente alla realtà sociale e politica del paese. (Naturalmente ci sono anche i cinepanettoni e le estati al mare, che drammaticamente sono pure essi strettamente legati alla realtà culturale e sociale del nostro paese).
Fare film che parlano dei problemi del nostro tempo è un'ottima cosa, probabilmente la migliore che si possa fare nel cinema, ma non credo che si possa prescindere dall'offrire film di pura finzione, che siano collocabili nel nostro tempo e nel nostro luogo così come in altri tempi e altri luoghi. Questa limitatezza di orizzonte è tra l'altro il motivo principale per cui i film italiani sono poco esportabili, e non è un caso che il nostro più grande successo all'estero degli ultimi 40 anni sia stato un film tipicamente universale come La vita è bella. La mancanza di film che facciano semplicemente viaggiare la mente, senza necessariamente ancorarla ai nostri problemi quotidiani, deriva secondo me dal nostro carattere, dal nostro vivere alla giornata, e tutto questo si è senz'altro acuito in questi ultimi anni in cui ci siamo ancora più introflessi, in cui gli slanci di ottimismo e di speranza nel futuro sono scomparsi.
Tutta questa pappardella mi serve per spiegare che io penso che per realizzare - e per vendere e infine vedere - un film come Reprise sia necessario avere grande libertà espressiva, grande apertura mentale, conoscenza diretta e genuina del mondo giovanile e non da ultimo una grande fiducia nel pubblico che può andare a vedere il film. Reprise racconta la storia di due giovani amici che hanno l'ambizione di diventare scrittori, e in modi e tempi diversi entrambi riusciranno ad avere il loro successo. Scrittori seri però, mica come quelli che parlano di lucchetti attorno ai lampioni dei ponti. Ora, pensare di proporre al pubblico giovanile italiano come modelli due ventitreenni che dedicano i loro maggiori sforzi alla scrittura di un romanzo, è pura follia; proporre al pubblico ultra50enne italiano un film frammentato, ipercinetico, calato interamente nella vita dei ventenni di Oslo (che però potrebbero essere di tante altre città, forse non italiane), è un'altra bella sfida. In Norvegia evidentemente le condizioni per fare film così ci sono, beati loro. Lo si capisce anche da questa intervista al regista Joachim Trier. Il quale, tra parentesi, ha i genitori entrambi professionisti del cinema, è lontano cugino del più famoso Lars Von e da ragazzino è stato campione norvegese di skateboard.
Come dicevo all'inizio, Reprise non è da considerarsi un capolavoro, in quanto a volte riproduce certi stereotipi del cinema "letterario" (che parla di scrittori) e alcuni passaggi narrativi sono un po' caotici, ma come pregi ha innanzitutto sui titoli di testa una scena potentissima con lo sfondo musicale di New dawn fades dei Joy Division, scena che dà una grande carica e una ottima disposizione d'animo alla visione del film, dopo di che si arriva fino al finale attraverso una strutturazione narrativa che spesso ricalca l'accavallarsi dei ricordi e dei pensieri dei due protagonisti, con una messa in scena quindi molto "lavorata" e decisamente appagante per lo spettatore ed una storia interessante e senza cali di tensione.
In conclusione, io sono molto contento di Gomorra, ma sogno un Reprise italiano...

giovedì 10 luglio 2008

EL VIOLIN (Francisco Vargas, 2006)

Il Messico si sta affermando sulla scena cinematografica internazionale già da qualche anno. Ad aprire la strada ci hanno pensato Alejandro Gonzalez Iñarritu col grande Amores perros (prima di prendere una deriva glamour con i suoi film successivi) e anche Y tu mamá tambien di Alfonso Cuaron. Ma entrambi questi film sono in tutto e per tutto, dal punto di vista estetico e narrativo, film occidentali, mi verrebbe da dire che sono film USA con una robusta speziatura di chili.
Invece El violin ci porta in un mondo diverso, in un Messico distante anni luce dall'iconografia solita delle spiagge di Acapulco, dei cactus, dei mariachi e delle passioni calienti.
Prima di tutto per la scelta in apparenza paradossale di girare in bianco e nero... ma come, un film ambientato in Messico, un paese così colorato, viene fatto in bianco e nero? Poi le location sono anch'esse atipiche, un Messico aspro fatto di strette vallate rinserrate tra alte montagne che ricordano molti paesaggi mediterranei. E infine, ma anche questo è un elemento di grande importanza, gli attori, che sono dei veri messicani meticci o indios, molti dei quali anche non professionisti, l'esatto opposto dei sex symbol latini come Gael Garcia Bernal.
Tutti questi ingredienti sono perfettamente funzionali a comporre un'opera di grande impatto emotivo (soprattutto nei primissimi minuti, in cui assistiamo a scene di tortura strategicamente collocate all'inizio per farci immergere immediatamente nella storia), che ci racconta una storia di guerriglia antigovernativa e di repressione militare ai danni dei villaggi di montagna e delle famiglie che vi abitano. Non è chiaro se il riferimento è alla guerriglia zapatista o a fatti più lontani nel tempo, in quanto non ci sono elementi che permettano una contestualizzazione sicura, ma tutto questo non è assolutamente un difetto perché non si tratta di un film di guerra, ma di un film sui rapporti umani.
Il violino del titolo è lo strumento suonato da Plutarco, un vecchio abitante del villaggio distrutto dall'esercito che collabora con la guerriglia. Grazie anche al violino, Plutarco riesce a ottenere la simpatia del capitano dell'esercito, in un gioco di reciproche sfide e inganni reso splendidamente, con pochi dialoghi e grande senso della narrazione cinematografica. Il senso di latente pessimismo che serpeggia durante tutto lo scorrere del film trova un esito coerente nel finale, in cui il presente sconfitto affida le sue speranze alle future generazioni: forse anche una metafora di resistenza con cui il regista vuole rappresentare la condizione dei paesi in via di sviluppo.
Un'ultima nota se la merita Don Angel Tavira, l'attore che ha interpretato Plutarco. Don Angel è purtroppo morto da pochi giorni, lo scorso 30 giugno, dopo una vita passata a fare il violinista, pur con la mano destra amputata da quando era ragazzino; El violin è stato l'unico film in cui (a 81 anni) ha recitato, e con la sua straordinaria interpretazione Don Angel ha vinto il premio come miglior attore al Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard. Un altro motivo per vedere questo ottimo film.

giovedì 19 giugno 2008

NO END IN SIGHT (Charles Ferguson, 2007)


Lo so che quello della guerra in Iraq è un argomento che ormai ha stancato tutti, ora poi che da un po' di tempo non ci sono uccisioni di militari italiani se ne parla solo per dovere di cronaca. Al cinema poi, quei film che trattano dell'Iraq hanno avuto ben poco successo: l'unico forse è In the valley of Elah, che comunque ha fatto molto meno di Crash (il film precedente del regista Paul Haggis), e non tanto in assoluto considerato il cast stellare.
Tra i documentari, mi è capitato di vederne uno decisamente brutto (Iraq in fragments) e devo ancora vedere Occupation Dreamland, mentre Redacted di Brian DePalma, pur celebrato in tanti festival, ha avuto negli USA una uscita molto limitata, e in Italia è andato direttamente sul mercato home. Anche il documentario italiano su Fallujah, Angeli distratti, è stato un fiasco totale al botteghino.
Ma No end in sight è un film che merita assolutamente di essere visto. Il suo merito è che si tratta dell'opera di un regista serio, che pospone la spettacolarizzazione delle immagini alla ricerca della verità, mediante interviste ai protagonisti dell'amministrazione USA (e anche con i silenzi di chi non ha voluto farsi intervistare) e con poche, ben scelte, immagini del teatro della guerra.
Il regista Charles Ferguson ha una biografia di tutto rispetto: laureato in Scienze politiche internazionali, è stato consulente di companies come Apple e Xerox, poi è stato uno dei due fondatori della software-house che ha creato FrontPage; una volta venduto FrontPage alla Microsoft, Ferguson è tornato ai suoi studi e ha intrapreso nuove attività come appunto la realizzazione di documentari.
No end in sight è stato candidato all'Oscar 2008 per il miglior documentario e vincitore del Premio Speciale della Giuria al Sundance; la motivazione della Giuria del Sundance spiega perfettamente le qualità del film: In recognition of the film as timely work that clearly illuminates the misguided policy decisions that have led to the catastrophic quagmire of the U.S. invasion and occupation of Iraq.
Quello che vediamo infatti non sono le immagini di dolore straziante che tanto piacciono ai telegiornali, ma invece la ricostruzione delle strategie di conduzione della guerra da parte del governo USA. Strategie del tutto balorde, formulate da personaggi incompetenti come Rumsfeld e Bremer, che non hanno mai diretto corpi militari e non conoscono nulla di politica internazionale e ancora meno della storia e della società arabe. Incompetenti e arroganti nel modo in cui esercitano il potere, essendo l'arroganza l'unica modalità di leadership concessa a chi non possiede conoscenza ed esperienza.
Vengono i brividi a pensare che queste persone hanno in mano le sorti del mondo intero e costituiscono un modello per altri capi di governo dotati della medesima bassa statura, fisica e politica.

lunedì 16 giugno 2008

DELIRIOUS (Tom DiCillo, 2006)


Per me finora è sempre stato un piacere vedere i film di Tom DiCillo, anche se gli unici che ho visto sono Johnny Suede, Living in Oblivion e ora questo suo ultimo Delirious. Credo infatti che DiCillo sia un regista con uno stile e una poetica ben definiti, indipendente fino al midollo ma tutto sommato classico e fluido nella sua messa in scena. Niente filmettini preconfezionati da scuola di scrittura creativa, quindi, e neanche film-verità o cazzuti film di denuncia. DiCillo è una sorta di narratore neoclassico, umanista, cresciuto con gli umori delle new-wave degli anni '70 e dotato perciò di uno sguardo molto empatico verso i losers e molto critico verso lo star-system dello spettacolo americano. E che DiCillo abbia tutte queste caratteristiche lo si capisce anche dal suo ottimo sito-blog, www.tomdicillo.com/blog.
Sarà per questo motivo che, nonostante DiCillo venga sempre trattato benissimo dai festival di tutto il mondo (vedere il palmarès di Delirious per averne la conferma), i suoi film vengono distribuiti malissimo sia negli States che nel resto del mondo (vedere Boxofficemojo per averne la conferma!). In Italia non c'è ancora traccia di questo film ma chissà, forse potrebbe uscire a luglio come riempibuchi o in autunno in una marginale edizione dvd.
Peccato - ancora una volta - perché Delirious è un film che pur non avendo nulla di trascendentale (la storia è in effetti una di quelle "già viste"), è comunque scritto molto bene e quindi la storia pur se prevedibile non annoia, è girato bene ed è piuttosto divertente, essendo trascinato dall'inizio alla fine dal sempre ottimo Steve Buscemi, ovviamente a suo agio nei ruoli di sfigato piagnucolone rompicoglioni.
In sintesi, con Delirious si passano bene due ore in leggerezza, e allora perché non farlo uscire al cine? Anche stavolta non capisco...

venerdì 23 maggio 2008

Ammenda

Stavolta devo proprio fare ammenda, perché due dei film che nelle settimane scorse ho catalogato come film perduti, invisibili in Italia, sono invece oggi regolarmente in vendita in DVD. Non sono arrivati nelle sale cinematografiche, ma questo in fondo è il male minore, ed è cosa tutto sommato prevedibile trattandosi di documentari.
E' stato solo la mattina di domenica 18 maggio alla Fnac di Milano che ho scoperto che 'The oil crash" e "My kid could paint that" hanno distribuzione italiana, a cura rispettivamente di Exa e Sony Distribution. E' giusto anche citare i nomi dei distributori perché sinceramente si meritano un plauso, non mi aspettavo che questi titoli sarebbero arrivati in Italia. A questo punto invito tutti ad acquistare i dvd, perché - come avrete spero già letto nei relativi post - sono film molto interessanti, e prendo come buon auspicio queste due uscite, sperando che sempre più film perduti come questi possano alla fine trovare spazio nei nostri negozi o ancora meglio nelle nostre sale.

venerdì 16 maggio 2008

MY KID COULD PAINT THAT (Amir Bar-Lev, 2007)

Marla è una bellissima bimba di 4 anni, e Zane è il suo fratellino più piccolo. Un giorno, il loro padre Mark fa vedere all'amico gallerista Anthony dei quadri che Marla avrebbe dipinto da sola. Sono quadri molto belli, astratti, coloratissimi, si direbbero una versione gioiosa dell'action-painting di Jackson Pollock. L'amico espone i quadri nella sua galleria e comincia a venderli per un bel po' di dollari, e così la piccola Marla diventa un fenomeno dell'arte moderna, le vengono dedicati articoli su giornali e riviste e servizi televisivi.
Naturalmente, con la fama arriva anche qualcuno che vuole guardarci dentro, e viene così insinuato il dubbio che sia veramente Marla a dipingere quei quadri, o quantomeno che sia lei a farli dall'inizio alla fine.
Un dubbio che questo film non riesce a sciogliere completamente, causa l'atteggiamento non del tutto trasparente dei genitori; l'idea che ci si fa comunque è che sia il padre (che è un pittore dilettante), e forse anche il gallerista, a indicare a Marla come fare il disegno e poi a rifinirlo per dargli un aspetto compiuto.
Al di là di questo aspetto, che è in pratica il plot narrativo di questo interessante documentario, diversi sono i punti su cui riflettere.
Prima di tutto ovviamente l'uso spregiudicato che si continua a fare di bambini inconsapevoli allo scopo di realizzare il desiderio di affermazione (e di ricchezza) di genitori ambiziosi, fatti che purtroppo capitano sempre più spesso e ai quali non bisognerebbe mai abituarsi.
Ancora più preoccupante è forse un aspetto (chiamiamolo di marketing) che riguarda in questo caso specifico il mercato dell'arte, ma che si può sicuramente traslare in altri ambiti: finché Marla è vista come un fenomeno, i suoi quadri vanno a ruba e la piccola viene senza alcuna vergogna paragonata a Picasso o a Manet. Poi, appena si fanno strada le prime insinuazioni, il personaggio viene ignorato e i suoi quadri non li vuole più comprare nessuno. Ma i quadri sono comunque sempre gli stessi! Quelli che prima piacevano a tutti! In sostanza, non si vende l'oggetto per le sue qualità intrinseche ma lo si vende solo per il significato trasgressivo, innovativo, scandaloso che si porta con sè, lo si vende perché è un oggetto unico per le leggi non scritte del marketing.
Infine, è veramente molto divertente vedere persone all'apparenza molto serie e preparate, di fronte a quadri che sono convinti essere stati dipinti da una bimba di quattro anni, sperticarsi in lodi iperboliche sulle qualità di questa bambina, come a dire che davvero, visto lo stato attuale dell'arte figurativa contemporanea, ogni bambino può dipingere quadri di grande valore, alla faccia delle scuole d'arte e della preparazione teorica e pratica degli artisti.

domenica 27 aprile 2008

Ne le dis à personne

Uno pensa che gli unici film che non arrivano in Italia, quelli che noi spettatori perdiamo a causa delle scelte dei distributori, siano solo film d'autore, film difficili, o film di paesi talmente lontani geograficamente che da noi non hanno tradizione cinematografica.
Invece tra di essi ci sono anche film che nella vicina Francia attirano più di 3 milioni di spettatori e fanno man bassa di premi, e sono quindi opere che uniscono qualità commerciali a doti intrinseche di trama, regia e recitazione.

Ne le dis à personne ha vinto 4 Premi César (miglior regia - Guillaume Canet, attore protagonista - François Cluzet, montaggio e musica originale) dalle sue complessive 9 nominations, ed è uno di quei meccanismi perfetti per ingolosire il pubblico: incastro ben congegnato di storia d'amore e thriller in cui lo spettatore sa qualcosa di più dei protagonisti ma non troppo, ragion per cui fino all'ultimo ci sono dei colpi di scena. Buona parte della storia è tipicamente hitchcockiana, con un innocente che cerca di sfuggire alla polizia che lo bracca e contemporaneamente è lui stesso alla ricerca di una verità che per ben otto anni gli è stata negata. Il pre-finale è forse un po' didascalico nel voler spiegare in dettaglio tutto quanto è successo nella notte misteriosa da cui si dipana tutta la storia, ma alcuni accorgimenti di puro mestiere riescono a mantenere alto l'interesse. Si tratta anche di una produzione piuttosto costosa, con scene di inseguimento girate in città (c'è addirittura un megatamponamento in una trafficatissima tangenziale) e un cast foltissimo che contiene diversi attori importanti come la bellissima Marie-Josée Croze, l'ottimo André Dussolier e in ruoli più di contorno Nathalie Baye, Jean Rochefort e Kristin Scott-Thomas oltre all'emergente Marina Hands (vincitrice del César come miglior attrice con un altro film, Lady Chatterley, che ha vinto il premio per miglior film ed è anch'esso ignoto in Italia).
C'è poi una constatazione che viene immediato fare. Ne le dis à personne è solo l'ultimo esempio di una tradizione francese di produrre film entertaining, destinati al grande pubblico, di genere thriller o d'azione (basti pensare nel passato ai film di Luc Besson o più recentemente a I fiumi di porpora e a 36) che acquisiscono molti concetti o tecniche hollywoodiane ma rielaborandole in modi e ambientazioni tipicamente francesi. In Italia saranno almeno 30 anni che non si fanno più film così, essendo il nostro cinema mainstream tutto appiattito tra le commedie e i drammi psicologici. Il film nostrano più simile a questi (che non a caso ha avuto un discreto successo in Francia) è Romanzo criminale di Michele Placido, che però è un po' penalizzato dal milieu politico in cui è calato. Io non credo che in Italia manchino i mezzi produttivi e il pubblico per ottenere successo con film di questo genere. Le storie ci sono (basta pensare a tutti i bravi scrittori di noir emersi negli ultimi tempi), gli attori pure, i registi... forse! ma soprattutto ci vuole il coraggio di investire.

mercoledì 2 aprile 2008

ANG PAGDADALAGA NI MAXIMO OLIVEROS (Auraeus Solito, 2005)

Maximo Oliveros, detto Maxi, è un ragazzino che vive in uno slum di Manila con il padre e due fratelli. Per la morte prematura della madre, ed essendo il più piccolo dei fratelli, Maxi si occupa di tutte le faccende di casa, è in pratica la donna della famiglia, e probabilmente proprio per questo è molto effeminato.
Il caso vuole che Maxi si innamori di Victor, un poliziotto da poco giunto a Manila, che sta indagando sugli affari illeciti che si svolgono nel quartiere dove vive Maxi e che hanno come protagonisti tutti e tre i suoi familiari. Gli avvenimenti tragici che ne seguiranno porteranno Maxi ad una grande crescita, alla sua vera fioritura come nuova persona.

È il primo film filippino che mi capita di vedere, e devo dire che si è trattato di una esperienza estremamente positiva, a tratti addirittura eccitante. Peccato solo per averlo dovuto vedere in divx sul televisore di casa, la visione cinematografica sarebbe stata pienamente coinvolgente.
Due sono le cose che mi hanno colpito: innanzitutto la delicatezza con cui è tratteggiato il personaggio di Maxi, che poteva facilmente scadere nello stereotipo del meninho da rua o del giovane prostituto e invece, grazie anche alla bellissima interpretazione del giovane Nathan Lopez, è un personaggio vivo, autentico e per il quale si prova un sincero affetto. Anche l'evoluzione di Maxi avviene senza colpi di scena, sono passaggi molto graduali contraddistinti dal progressivo cambiamento nell'abbigliamento di Maxi: dalle iniziali canottierine da bambina (e travestimenti da Miss Filippine) a più normali t-shirt per finire con la camicetta da bravo ragazzo che Maxi vestirà per il suo primo lavoro.
Il secondo aspetto veramente degno di nota è l'ambientazione realistica, a tratti quasi documentaristica, nei quartieri popolari. Il regista Auraeus Solito ci immerge letteralmente in questi ambienti, andando a insinuare la mdp fino negli angoli più nascosti, riprendendo anche da posizioni insolite pur di essere presente in ogni anfratto di quel formicaio umano. A rendere ancora più viva questa descrizione è la colonna sonora, costituita da un tappeto sonoro ininterrotto di rombi di motorini, schiamazzi di bambini, clacson di automobili. Le musiche originali sono poi straordinarie: brani strumentali di piano o chitarra acustica, entrambi volutamente distorti e non accordati, creano un forte effetto di esotismo ma per nulla di maniera.
In una parola, una vera rivelazione, un film assolutamente da vedere e che non a caso ha fatto razzia di premi in tutto il mondo (anche a Berlino, Rotterdam e al Gay & Lesbian film festival di Torino).

venerdì 28 marzo 2008

The King of Kong - A fistful of quarters


Ricordate Pac-Man? Donkey Kong? Bisogna tornare alla preistoria dei videogames, ovvero agli inizi degli anni '80, ma per chi, come anche il sottoscritto, ha passato qualche ora della propria adolescenza cercando di superare i primi livelli di quei giochi, il ricordo suscita certamente un po' di tenerezza.

Non è esattamente così per i nostri coetanei statunitensi che, come spesso accade, prendono ogni cosa maledettamente sul serio. Anche quando si tratta senza alcun dubbio di sorta di un gioco. E così, unendo questa seriosità alla possibilità di ricavare fama e denaro (altra cosa a cui gli yankee non sono certo indifferenti), già dal 1982 si organizzano tornei di videogames i cui vincitori diventano piccole celebrità. Che poi questi vincitori vengano automaticamente proclamati campioni del mondo è solo l'ennesima manifestazione dell'egocentrismo che regna laggiù.
E' il caso ad esempio di Billy Mitchell, dal 1982 recordman incontestato di Donkey Kong oltre che titolare di una faccia per niente simpatica. Finché, attorno al 2005, da un garage di Redmond, Washington (guarda caso la città di Bill Gates) sbuca Steve Wiebe, che invece ha la faccia pulita del buon ragazzone americano. Con grande impegno per poter conciliare la sua passione per i videogames con il tempo richiesto dalla famiglia e dal lavoro, Steve riesce a stracciare il record di Mitchell. E qui iniziano i problemi, perché Mitchell si rivela essere quello che fin dal primo minuto sospettavamo, ovvero un gran pezzo di merda. Con mezzi poco leciti e anche estremamente vigliacchi, Mitchell difenderà con i denti il suo record stabilito nel 1982.

Detto così sembra un film di fiction, invece è la storia documentata di come si possano brutalizzare anche emozioni semplici e naturali come quelle che nascono dal gioco. Ma anche di come sia possibile creare dal nulla dei personaggi genuini (Wiebe) e fasulli (Mitchell), che catturano l'attenzione di tante persone per le quali la passione per un gioco può sovrastare la razionalità.
Rimane solo un dubbio, sollevato anche da diversi bloggers. Ovvero che il film più che un vero documentario sia invece una sorta di reality-movie a tema, tanto che ci sarebbero anche alcune smentite sulla versione dei fatti raccontata dal film. Il dubbio è sicuramente lecito, quello che di certo non è in discussione è l'efficacia della rappresentazione dell'ambiente di questi game-addicted e la conseguente godibilità di questo film, in certi momenti anche assai divertente.