Sellerio, 2006
pag.200-202
Non era serata da rimanere in casa e decisi di andare al cinema. All'Esedra c'era The long goodbye di Altman, in lingua originale con sottotitoli. Ci misi venti minuti per arrivare a quel vecchio cinema, camminando veloce per strade così deserte e spazzate dal maestrale che facevano quasi paura.
Il signore dei biglietti non era contento di vedermi, e non fece niente per nasconderlo. Esitò persino qualche istante a prendere la banconota che gli avevo poggiato davanti e pensai che mi pregasse di andarmene, perché ero l'unico spettatore e dunque l'unico ostacolo alla chiusura anticipata del cinema. Poi prese i soldi, staccò il biglietto e me lo diede sgarbatamente assieme al resto.
Entrai nella sala completamente vuota. Non so se la totale assenza di stimoli sensoriali umani acuiva il mio olfatto o se il cinema aveva bisogno di una buona pulizia, ma sentii distintamente l'odore delle fodere delle poltrone e della polvere che le impregnava.
Mi sedetti, mi guardai attorno, pensai che era una situazione perfetta per un episodio di Ai confini della realtà. E in effetti per una manciata di secondi dovetti contrastare l'impulso di andare a controllare che l'uomo dei biglietti non si fosse trasformato in un crostaceo gigante antropofago e che le uscite di sicurezza non fossero diventate varchi spazio-temporali verso l'Altra Dimensione.
Poi entrò una donna. Si sedette vicino all'entrata, una decina di file dietro di me. Se volevo guardarla dovevo girarmi apposta, cosa che, se esageravo, poteva essere sconveniente. Dunque riuscii a farmene solo un'idea sommaria, prima che si spegnessero le luci e cominciasse il film.
(...)
Durante il primo tempo non seguii il film con molta attenzione, a parte il fatto che l'avevo già visto due volte. Pensavo che mi sarebbe piaciuto attaccare discorso con quella ragazza, signora, quello che era. Mi sarebbe piaciuto parlarle nell'intervallo e poi, finito il film, mi sarebbe piaciuto invitarla a bere qualcosa. Sempre che non se ne fosse andata durante il primo tempo, vinta dall'inquietudine di quella sala deserta e un po' paurosa. E dal timore che l'altro spettatore - che si era voltato un po' troppe volte a guardarla - fosse un molestatore maniaco.
Nell'intervallo lei c'era ancora. Si era tolta il poncho o lo scialle e stava lì, del tutto a suo agio, ma naturalmente io non trovai il coraggio di attaccare discorso.
Nel secondo tempo pensai che un buono spunto poteva essere la presenza del giovane Schwarzenegger nel film. Ha visto, c'era Schwarzenegger ragazzino. Roba da non credersi che adesso faccia il governatore della California. Vabbè, fa schifo, ma per una cinefila - e cazzo, una che va a vedersi da sola The long goodbye a quell'ora di notte è una cinefila - lo spunto «prime apparizioni di attori allora sconosciuti poi diventati molto famosi» non è male.
Quando le luci si accesero, mentre l'operatore troncava bruscamente i titoli di coda, mi alzai deciso. Non ero mai stato capace di abbordare una ragazza in vita mia, ma adesso ero cresciuto - per così dire - e potevo provarci. In fondo cosa poteva succederci? Nulla, che diamine.
Lei però stavolta non c'era più. Il cinema era di nuovo vuoto.
Mi affrettai verso l'uscita, pensando che si fosse alzata immediatamente prima dell'accensione delle luci. Ma per strada non c'era nessuno.
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